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I Giornali e la realtà

A proposito di autoreferenzialità e ipocrisia. Di moralismo,  qualunquismo e incoerenza. Di lontananza dei quotidiani italiani dalla realtà che li circonda. Noi di “A voce alta” abbbiamo più volte affrontato la questione.
Ma ecco adesso un esempio emblematico, che invita tutti a riflettere.
Lo riporta Giuseppe De Bellis, in un articolo pubblicato il 13 settembre su Il Giornale.

L’Unità difende i precari, ma li manda via tutti

Il Paese reale dell’Unità sta solo fuori. Si vede dalle finestre, ma non esiste all’interno. Perché chi fa la doppia morale non s’accorge di mentire a se stesso. Ci racconta che il vero Paese è questo: «La rivolta di precari e operai». Cioè l’Italia da salvare, l’Italia da tutelare, l’Italia che l’Unità sposa, appoggia, spalleggia. Lo scrive la direttora Concita De Gregorio, nel suo Filo rosso: «Parliamo del Paese dove viviamo tutti noi. Gli operai della Stanic, i precari della scuola accampati in una specie di campo Rom davanti al ministero». Basta così. Il paradosso si firma in tre righe, quelle che raccontano l’ipocrisia di un giornale che difende i lavoratori e fa finta di pensare ai precari. Fa finta, perché i suoi li «licenzia» tutti, li caccia prima di assumerli, li manda via senza una sola garanzia. Ne aveva 23, fino a pochi mesi fa. Ventitré persone in bilico, con contratti a termine o di collaborazione, ventitré di loro. Non ci sono più. Fatti fuori in un secondo, senza remore, o quantomeno senza quel logorio interiore che invece viene spacciato a buon mercato sulle colonne del giornale che apparteneva a Gramsci quando si parla del governo che affama i lavoratori. Non un’autocritica, non un’ammissione: «Siamo ipocriti». O almeno: «Lo siamo stati». Non c’è traccia, perché l’Italia reale è quella immaginata, fotografata e pubblicata, non quella che c’è nella scrivania accanto. Allora il paradosso dei paradossi è che mentre licenziava, l’Unità faceva campagne a favore dei precari e dei lavoratori in difficoltà. «Noi eravamo imbarazzati», dicono adesso i giovani che il posto l’hanno perso. «Ci cacciavano e mentre lo facevano pubblicavamo almeno quattro copertine di appoggio ai precari». Le copertine ci sono. Le copertine parlano. «Soli e solidali», scrive l’Unità del 2 marzo. «Lavorare meno, lavorare tutti, da Nord a Sud si moltiplicano i contratti di solidarietà per salvare il posto di lavoro». Bello raccontarlo, brutto applicarlo. Perché mentre uscivano queste parole, si raccontano le assemblee di redazione assurde, chiuse con comunicati politicamente corretti, ma nelle quali il comportamento anti-sindacale era la norma. Si parlava dei ragazzi. I giovani, certo. I giovani, cioè il futuro del giornale e del Paese. Invece dai banchi dell’Unità partiva questo: «Beh, ragazzi, se siete qui solo da sei mesi, un motivo ci sarà…». Come a dire: andatevene, amici precari. Come a dire: non servite, amici giovani. C’erano i potenziali prepensionati da tutelare. Peccato che loro qualche garanzia ce l’abbiano, mentre i precari no. All’Unità lo sapevano benissimo, visto che il 5 marzo è uscita una copertina strappalacrime: «Un’esistenza precaria». Era un viaggio tra le vite dei giovani invitati in redazione a raccontare le loro storie di straordinaria difficoltà. Un forum, che fa tanto solidarietà e partecipazione collettiva, ma che invece era solo un modo per pulirsi la coscienza preventivamente. Un mese dopo, un mese appena e via al piano di sterminio del precario interno, dell’inutile collega che pure aveva dato il massimo proprio perché non aveva il posto garantito. Spremuto e cacciato. Senza sconti, senza paracadute, mentre il direttore parlava dell’«[/TESTO]estinzione del lavoro»: «Dice anche l’Istat (che) i disoccupati crescono più degli occupati. (…) È come dire che i morti crescono più dei nati. È come dire che è solo questione di tempo, neppure molto: l’estinzione è un orizzonte visibile». Non serviva guardare l’orizzonte, bastava allungare lo sguardo oltre il vetro. Però no, non si dica, non ci si permetta. Voce a Salvo Barrano e alla sua storia: «Quando ho capito che avrei avuto un’esistenza precaria ho deciso di non fare rinunce. Mi sono sposato, ho avuto una figlia. Il mio orizzonte è di un solo giorno e ogni giorno faccio finta di niente. È una bugia. Ma mi serve». Qualcuno di quelli che l’Unità ha cacciato, adesso ci pensa e s’indigna. Pensa che il piano di ristrutturazione è partito all’indomani della sconfitta elettorale del centrosinistra in Sardegna. L’editore illuminato Renato Soru, trombato alle regionali, ordinò di mettere a posto i conti del giornale con cui avrebbe voluto fare la scalata al vertice Pd. I conti, cioè i tagli. Via i precari, tutti. E, nel frattempo, il direttore in tv ad Annozero o alle Invasioni barbariche a parlarci di un Paese che non appoggia il suo domani. Gli altri, sempre gli altri. Loro ne hanno ripreso uno per dargli un contratto di sostituzione maternità, a qualcun altro hanno offerto di rientrare con strane formule e strani giri. Chi ha potuto s’è riciclato negli uffici stampa dei parlamentari piddini o in quello del partito, con un aggancio o con una telefonata. A casa i giovani, licenziato il futuro. Senza tanti pensieri e senza tante illusioni. Con qualche minaccia, con una punta di livore, con la consapevolezza che il bene primario dell’ideologia vale qualche sacrificio e qualche testa giovane da tagliare. Hanno tempo, loro. Così come ha tempo l’Unità di continuare a raccontare l’Italia precaria da difendere, di pontificare su chi non tutela i diritti dei meno fortunati. L’ipocrisia degli ingiusti. Più di due milioni resteranno senza lavoro, scrivevano. «Colpiscono noi perché siamo i più deboli». Noi, cioè i giovani senza un lavoro fisso e senza garanzie. Noi tutti, tranne quelli che stavano nella scrivania accanto. Quelli erano servi di qualcuno. O di qualcosa.

 

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