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Gli Ogm che sono già tra noi

Ci possono essere due modi per guardare all’avanzata degli Ogm nelle nostre vite. Il primo è osservare, con il distacco concesso dalla statistica, il grafico pubblicato in questa pagina. Nel risiko degli organismi geneticamente modificati l’Europa è ancora, sostanzialmente, uno spazio immacolato, rispetto a Stati Uniti, Cina e India.
Il secondo sistema, forse più coinvolgente, è correre al supermarket e cominciare a compulsare le etichette dei prodotti più vari: le bottiglie di olio di semi, la scatola dei cracker o la conserva di pomodoro. Ma anche in questo caso il risultato sarebbe uguale: la legge impone alle aziende di riportare sulle confezioni nome e quantità degli Ogm utilizzati, solo se la concentrazione supera lo 0,9%. Una soglia che praticamente nessuna industria alimentare italiana o europea vuole superare. Negli ultimi giorni, però, questo equilibrio sembra tornato in discussione con il via libera della Commissione europea alla «patata Amflora» della tedesca Basf e ad altri tre sementi di mais dell’americana Monsanto.
Nel mondo il repertorio Ogm spazia dal cotone indiano, al pioppo cinese, ai semi di colza canadesi utilizzati per il biodiesel. Ma in Italia il primo posto in cui cercare sono le 43 mila stalle, dove si allevano bovini, suini e polli. Il 25% del mangime che tiene in piedi gli allevamenti proviene dalle coltivazioni di soia Ogm di Stati Uniti, Argentina e Brasile. Ciò non significa che, allora, chi è contrario agli organismi modificati debba osservare con sospetto il macellaio sotto casa mentre prepara le fettine oppure sia costretto a ispezionare il petto di pollo già impacchettato con la lente di ingrandimento. Almeno su questo punto i due schieramenti, pro o contro gli Ogm, sono d’accordo. Come dice Luca Colombo, agronomo e ricercatore della Fondazione Diritti genetici (presieduta da Mario Capanna e contraria al biotech), «da un punto di vista scientifico non ci sono prove che il
dna transgenico della soia venga trasferito nei prodotti alimentari ricavati dal bestiame». Per fare un esempio: molti allevamenti di suini da cui si ottiene il Prosciutto di Parma dopo il culatello usano una quota di mangimi Ogm. Ma questo non vuol dire che anche quei salumi siano geneticamente modificati. «Tuttavia — aggiunge Luca Colombo — tutti questi prodotti si fregiano di un marchio che si fonda sulla “tradizione” e quindi sarebbe meglio se gli Ogm non ci fossero».
In effetti «Ogm sì» od «Ogm no» è diventato, in un certo senso, anche un tema di marketing per tutte le industrie alimentari italiane, europee e per le multinazionali americane presenti sui nostri mercati. Giusto o sbagliato che sia, le aziende sono convinte che la maggior parte dei consumatori, quando si tratta di mettere qualsiasi cosa nel piatto, non vogliano sentir parlare di prodotti «modificati». In altre aree del mondo si ragiona e si consuma in modo opposto. Negli Stati Uniti gli sciroppi di soia e di mais Ogm (oltre all’amido) sono materie prime strategiche per la preparazione del menù americano, non solo nella sequenza di massa: bibita gassata (tipo cola), hamburger, pop corn. L’elenco è lungo: carne in scatola, liofilizzati, succhi e le conserve praticamente al gran completo. Da ultimo l’amministrazione Usa ha ammesso anche la coltivazione della barbabietola «modificata», riversando sul mercato zucchero e derivati per il consumo diretto o, ancora una volta, per la preparazione di altri alimenti (a cominciare dai dolci naturalmente).
La sostanziale differenza tra Europa e Stati Uniti rimanda a una diversa interpretazione del cosiddetto «principio di precauzione». Nel Vecchio continente un’impresa (da qualunque parte del mondo provenga) deve scrivere sull’etichetta che cosa vuole vendere e, soprattutto, deve dimostrare che il suo prodotto non sia nocivo alla salute, altrimenti niente scaffali nei negozi e nei supermarket. Negli Usa, invece, si procede in modo simmetricamente opposto: qualcuno deve provare che una merce è dannosa se vuole ottenerne il ritiro dalle catene commerciali. Quindi le etichette non sono previste. Le potenze economiche emergenti sembrano seguire il modello americano con una carica extra di entusiasmo produttivo. Il Brasile ormai destina 21 milioni di ettari a coltivazioni Ogm, un terzo rispetto ai 64 milioni degli Stati Uniti (capo classifica). La Cina ha appena cominciato, ma è già a 3,7 milioni; l’India ha raggiunto quota 8 milioni di ettari (dati Isaaa, International service for the acquisition of agri-biotech applications). Sono proprio questi Paesi ad allargare l’orizzonte del biotech oltre i confini dell’alimentazione. Gli indiani, per esempio, puntano sul cotone Ogm, esportando la materia di base per l’industria tessile occidentale. Magliette, jeans, biancheria e tutto il resto dell’abbigliamento contengono sempre più spesso fibre di cotone modificato. Tracce difficili da individuare perché la lavorazione del cotone, tra sfibratura, filatura e confezione, rimbalza da un posto all’altro del globo. Ci sono anche altre applicazioni industriali: fibre di cotone vengono utilizzate nella miscela per la carta delle banconote; oppure possono entrare nella fabbricazione delle bustine da tè (senza pericoli per la salute).
Più difficile compilare l’inventario dell’Ogm cinese. Sicuramente figurano pomodori e peperoni. Ma le biotecnologie sono al servizio anche della manifattura. Oltre al cotone la Cina sta testando la resa del «pioppo modificato». Per ora sono solo alcune, centinaia di migliaia di piante: troppo poco per parlare di un distretto del «legno Ogm». Ma i cinesi, come sempre, hanno programmi ambiziosi. Le materie prime «modificate» cominceranno presto a condizionare anche la competizione mondiale tre le imprese (Corriere della Sera).

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