Leggo su tutti i quotidiani che si starebbe riaprendo uno spiraglio per connotare questa legislatura come «costituente», per aprire cioè quella stagione di riforme concordate tra maggioranza e opposizione tante volte tentata e sistematicamente abortita. A scanso di equivoci, io ho sempre sostenuto che la prima missione del Pdl è fare le riforme e modernizzare politica e istituzioni, oltre che supportare l’azione del governo, che in questo momento storico è necessariamente il fulcro dell’azione riformatrice. È chiaro a tutti che le riforme, se sono condivise, hanno una valenza più forte, non c’è bisogno di essere Aristotele per capirlo.
Ma l’ammodernamento della Costituzione è stato talmente tanto rinviato che ora non c’è più tempo da perdere, e sarebbe controproducente per il Paese temporeggiare ancora alla ricerca di una mediazione a tutti i costi che finirebbe per produrre solo o un passetto in avanti non risolutivo o, addirittura, un nuovo fallimento. A me la parola «inciucio», rispolverata da D’Alema, non spaventa affatto, perché in democrazia a volte i compromessi sono necessari. Lo furono nella Prima Repubblica quando, in piena Guerra Fredda, si dovette trattare col Pci per scongiurare una guerra civile vera e propria, ma il prezzo di quel consociativismo lo stiamo pagando ancora oggi in termini, ad esempio, di debito pubblico e di gravissimi ritardi nell’ammodernamento dello Stato. Oggi, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, non è più tollerabile che una parte della sinistra, ancora imprigionata nei suoi retaggi ideologici, riproponga meccanicamente lo stesso atteggiamento che riservò a Bettino Craxi quando, per primo e con grande lungimiranza, mise sul tavolo della politica la necessità di cambiare la Costituzione.
Allora additando il leader del Psi come un pericoloso avventuriero, nella logica leninista secondo cui gli avversari più temibili del comunismo stanno a sinistra; oggi, invece, indicando il Cavaliere Nero come l’ostacolo insuperabile all’avvio di una qualsiasi riforma, per cui se prima non si rimuove quel macigno, la Costituzione non va toccata, perché resta il presidio ultimo della democrazia. E allora come oggi, a orchestrare questa strategia reazionaria c’era il giornale-partito di Repubblica, punta di diamante di quella cultura azionista che – parola di D’Alema – non ha mai fatto il bene del Paese. Anche se di quella cultura il Pd è profondamente permeato. Ma, detto questo, io voglio essere come sempre molto chiaro: il Pdl, con l’investitura popolare che ha avuto, ha il dovere non solo di fare le riforme con o senza il concorso dell’opposizione, ma deve anche farsi carico di presentare una proposta chiara e autonoma al Paese, insieme alla Lega, e di aprire poi un confronto col centrosinistra.
Dal quale sarebbe lecito aspettarsi lo stesso atteggiamento dialogante che noi adottammo dall’opposizione quando fu presentata la Bozza Violante, nella passata legislatura. In questa ottica, il miglior modo di affrontare la questione non è certo quello di ripartire dal testo Violante, né tantomeno di eleggere una pletorica assemblea costituente che costituirebbe un’ammissione di impotenza del Parlamento. Eugenio Scalfari, nel suo sermone domenicale, oltre a cambiarmi la biografia, indicandomi come co-fondatore di Forza Italia ed ex capo di Publitalia (a quei tempi militavo orgogliosamente nel Pri di Spadolini), ha elencato i miei obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Consulta; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier i poteri dell’esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Tutti propositi in cui non ho difficoltà a riconoscermi, perché ritengo siano perfettamente legittimi, ma che Scalfari non esita a giudicare addirittura «eversivi». «Uso questa parola non per odio verso chicchessia – scrive il fondatore di Repubblica – ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia». Ora, a parte che alcuni di questi «propositi» sono apparsi anche nel programma del maggior partito della sinistra, soprattutto negli anni in cui è stato al governo, e in parte compaiono nella stessa Bozza Violante, il vizio d’origine del ragionamento di Scalfari risiede in una ragione profondamente antidemocratica, secondo cui la maggioranza acquisita dal Pdl non avrebbe una piena legittimazione perché ritenuta espressione di un popolo che non risponde a quell’Interesse Generale stabilito da una ristretta élite di Illuminati che stanno sempre a sinistra e che usano come testa d’ariete la parte politicizzata della magistratura che procede per certezze morali, non per prove e nemmeno per indizi processuali. Se questa è la premessa, e lo è, ne discende che ogni proposta di riforma porta inesorabilmente all’eversione e al ritorno del fascismo.
Io penso invece che da Tangentopoli in poi, dopo il tentativo teorizzato dal procuratore Borrelli di imporre al Paese una «supplenza» della magistratura sulla classe politica, gli strumenti di controllo abbiano preso il sopravvento sul potere legislativo, a causa anche della rinuncia all’immunità parlamentare votata nel pieno dello sbornia giustizialista del ’93. Ed è stato proprio dopo la modifica dell’articolo 68 della Costituzione che la libertà del popolo sovrano è stata messa sotto tutela. Credo che proprio da qui si debba ripartire, ripristinando lo spirito e la lettera con cui i Padri costituenti vollero tutelare il potere legislativo dalle incursioni di altri poteri – anzi ordini – dello Stato.
Se la sinistra non riconosce pienamente e limpidamente, una volta per tutte, che in questi anni c’è stata un’esondazione del potere giudiziario dai suoi confini, con un uso distorto e strabico dell’obbligatorietà dell’azione penale, e che se ci sono state «leggi ad personam» è solo per difendersi da una «giustizia ad personam» che ha tentato di criminalizzare Berlusconi, cioè alternativamente il capo del governo e il capo dell’opposizione, non si va da nessuna parte. Quando si ascoltano magistrati come Ingroia affermare che si può «sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza», vengono i brividi. Vorrei chiedere a Scalfari: sono i miei «propositi eversivi» o quelli del pm palermitano che, insieme ad altre bocche di fuoco, tenta da anni di dimostrare l’indimostrabile, ossia che Berlusconi è un mafioso e un mandante di stragi?
Di fronte a queste autentiche anomalie democratiche, è dovere del potere legislativo, e soprattutto della maggioranza del Parlamento, dare risposte, una delle quali non può non essere quella di far giudicare l’operato dei magistrati da un organo esterno alla magistratura, visto che il Csm si è trasformato in una corporazione a tutela non solo delle prerogative, ma anche degli abusi giudiziari. Non voglio dilungarmi oltre. Ma non mi inchino alla mistica delle riforme per forza condivise. Io guardo avanti, e quando sento Casini vagheggiare di un ritorno alla Prima Repubblica, con i governi che si fanno e disfanno in Parlamento al di là della volontà degli elettori, ritengo ancora di più che sia dovere della maggioranza portare avanti il programma concordato con gli elettori, cioè col popolo che, avendo l’ultima parola anche sulle riforme costituzionali grazie al referendum confermativo, in democrazia conta più degli scalfarismi, delle oligarchie e di chi agogna uno Stato etico che è l’anticamera di tutti i totalitarismi (da Il Giornale).
Ma l’ammodernamento della Costituzione è stato talmente tanto rinviato che ora non c’è più tempo da perdere, e sarebbe controproducente per il Paese temporeggiare ancora alla ricerca di una mediazione a tutti i costi che finirebbe per produrre solo o un passetto in avanti non risolutivo o, addirittura, un nuovo fallimento. A me la parola «inciucio», rispolverata da D’Alema, non spaventa affatto, perché in democrazia a volte i compromessi sono necessari. Lo furono nella Prima Repubblica quando, in piena Guerra Fredda, si dovette trattare col Pci per scongiurare una guerra civile vera e propria, ma il prezzo di quel consociativismo lo stiamo pagando ancora oggi in termini, ad esempio, di debito pubblico e di gravissimi ritardi nell’ammodernamento dello Stato. Oggi, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, non è più tollerabile che una parte della sinistra, ancora imprigionata nei suoi retaggi ideologici, riproponga meccanicamente lo stesso atteggiamento che riservò a Bettino Craxi quando, per primo e con grande lungimiranza, mise sul tavolo della politica la necessità di cambiare la Costituzione.
Allora additando il leader del Psi come un pericoloso avventuriero, nella logica leninista secondo cui gli avversari più temibili del comunismo stanno a sinistra; oggi, invece, indicando il Cavaliere Nero come l’ostacolo insuperabile all’avvio di una qualsiasi riforma, per cui se prima non si rimuove quel macigno, la Costituzione non va toccata, perché resta il presidio ultimo della democrazia. E allora come oggi, a orchestrare questa strategia reazionaria c’era il giornale-partito di Repubblica, punta di diamante di quella cultura azionista che – parola di D’Alema – non ha mai fatto il bene del Paese. Anche se di quella cultura il Pd è profondamente permeato. Ma, detto questo, io voglio essere come sempre molto chiaro: il Pdl, con l’investitura popolare che ha avuto, ha il dovere non solo di fare le riforme con o senza il concorso dell’opposizione, ma deve anche farsi carico di presentare una proposta chiara e autonoma al Paese, insieme alla Lega, e di aprire poi un confronto col centrosinistra.
Dal quale sarebbe lecito aspettarsi lo stesso atteggiamento dialogante che noi adottammo dall’opposizione quando fu presentata la Bozza Violante, nella passata legislatura. In questa ottica, il miglior modo di affrontare la questione non è certo quello di ripartire dal testo Violante, né tantomeno di eleggere una pletorica assemblea costituente che costituirebbe un’ammissione di impotenza del Parlamento. Eugenio Scalfari, nel suo sermone domenicale, oltre a cambiarmi la biografia, indicandomi come co-fondatore di Forza Italia ed ex capo di Publitalia (a quei tempi militavo orgogliosamente nel Pri di Spadolini), ha elencato i miei obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Consulta; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier i poteri dell’esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Tutti propositi in cui non ho difficoltà a riconoscermi, perché ritengo siano perfettamente legittimi, ma che Scalfari non esita a giudicare addirittura «eversivi». «Uso questa parola non per odio verso chicchessia – scrive il fondatore di Repubblica – ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia». Ora, a parte che alcuni di questi «propositi» sono apparsi anche nel programma del maggior partito della sinistra, soprattutto negli anni in cui è stato al governo, e in parte compaiono nella stessa Bozza Violante, il vizio d’origine del ragionamento di Scalfari risiede in una ragione profondamente antidemocratica, secondo cui la maggioranza acquisita dal Pdl non avrebbe una piena legittimazione perché ritenuta espressione di un popolo che non risponde a quell’Interesse Generale stabilito da una ristretta élite di Illuminati che stanno sempre a sinistra e che usano come testa d’ariete la parte politicizzata della magistratura che procede per certezze morali, non per prove e nemmeno per indizi processuali. Se questa è la premessa, e lo è, ne discende che ogni proposta di riforma porta inesorabilmente all’eversione e al ritorno del fascismo.
Io penso invece che da Tangentopoli in poi, dopo il tentativo teorizzato dal procuratore Borrelli di imporre al Paese una «supplenza» della magistratura sulla classe politica, gli strumenti di controllo abbiano preso il sopravvento sul potere legislativo, a causa anche della rinuncia all’immunità parlamentare votata nel pieno dello sbornia giustizialista del ’93. Ed è stato proprio dopo la modifica dell’articolo 68 della Costituzione che la libertà del popolo sovrano è stata messa sotto tutela. Credo che proprio da qui si debba ripartire, ripristinando lo spirito e la lettera con cui i Padri costituenti vollero tutelare il potere legislativo dalle incursioni di altri poteri – anzi ordini – dello Stato.
Se la sinistra non riconosce pienamente e limpidamente, una volta per tutte, che in questi anni c’è stata un’esondazione del potere giudiziario dai suoi confini, con un uso distorto e strabico dell’obbligatorietà dell’azione penale, e che se ci sono state «leggi ad personam» è solo per difendersi da una «giustizia ad personam» che ha tentato di criminalizzare Berlusconi, cioè alternativamente il capo del governo e il capo dell’opposizione, non si va da nessuna parte. Quando si ascoltano magistrati come Ingroia affermare che si può «sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza», vengono i brividi. Vorrei chiedere a Scalfari: sono i miei «propositi eversivi» o quelli del pm palermitano che, insieme ad altre bocche di fuoco, tenta da anni di dimostrare l’indimostrabile, ossia che Berlusconi è un mafioso e un mandante di stragi?
Di fronte a queste autentiche anomalie democratiche, è dovere del potere legislativo, e soprattutto della maggioranza del Parlamento, dare risposte, una delle quali non può non essere quella di far giudicare l’operato dei magistrati da un organo esterno alla magistratura, visto che il Csm si è trasformato in una corporazione a tutela non solo delle prerogative, ma anche degli abusi giudiziari. Non voglio dilungarmi oltre. Ma non mi inchino alla mistica delle riforme per forza condivise. Io guardo avanti, e quando sento Casini vagheggiare di un ritorno alla Prima Repubblica, con i governi che si fanno e disfanno in Parlamento al di là della volontà degli elettori, ritengo ancora di più che sia dovere della maggioranza portare avanti il programma concordato con gli elettori, cioè col popolo che, avendo l’ultima parola anche sulle riforme costituzionali grazie al referendum confermativo, in democrazia conta più degli scalfarismi, delle oligarchie e di chi agogna uno Stato etico che è l’anticamera di tutti i totalitarismi (da Il Giornale).