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Giovani e lavoro, tocca alle università riscoprire un nuovo senso pratico

Un posto di lavoro su cinque, quest’anno, resterà vuoto. Assurdo, no?
Si parla tanto di disoccupazione (alimentata dalla crisi internazionale) e di precarietà giovanile, considerata oramai come male oscuro del terzo millennio. E poi, dato che sorprende ma non troppo, si scopre che il mercato fatica a trovare le professionalità e i titoli che servono. A latitare, in Italia nell’anno 2009, sono soprattutto infermieri,  addetti marketing, parrucchieri e progettisti elettronici. A rivelarlo un interessante rapporto stilato insieme da Unioncamere e ministero del Lavoro.
E’ evidente che sono troppe le cose che non funzionano. Una su tutte: l‘intesa tra università e imprese. Con gli atenei che rischiano sempre più di vivere in una dimensione aliena alla realtà e alle sue evoluzioni.
Negli ultimi tempi, sono stati istituiti tanti corsi di laurea che hanno prodotto altrettanti laureati, che si ritrovano però, oggi, senza uno straccio di lavoro. E il danno precede di poco la beffa, perché imprese ed enti faticano disperatamente a trovare le risorse umane. Risultato? Rallenta l’economia e aumenta il disagio di tanti ragazzi che si trovano letteralmente allo sbando.
Tutto ciò accade perché sono mancate e continuano a mancare la programmazione e la collaborazione tra i vari soggetti in causa.  E perché le università sono ancora prive di quella connotazione “pratica”, che al di là dei soliti riconoscimenti e traguardi accademici le renderebbe davvero funzionali alla società che le circonda e le fa vivere. Il mondo della formazione rischia quindi di essere quasi fine a se stesso, incurante del suo obiettivo primario: conferire conoscenze e qualità da spendere poi nel mondo del lavoro. Punto.
Il problema è ampio e complesso. Nel Belpaese è in generale il concetto di cultura a conservare un significato elitario e astratto. Più estetico che concreto. Per questo motivo l’impresa di chi vuole aggiustare le cose si fa piuttosto ardua: c’è da intervenire sulla mentalità. Missione quasi impossibile. E c’è da convincere un modo, quello accademico, fin troppo conservatore e poco incline alle mutazioni. Figuriamoci se poi si tratta di trasformazioni epocali come queste.
Ma non c’è tempo da perdere: formazione e lavoro – non solo a chiacchiere – devono cominciare ad essere concepite come un’unica entità. Per buona pace dei tanti, troppi, nostalgici di un polveroso quanto inutile e artificioso prestigio accademico.

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