Archivio di Cultura

“Giornata dello Spettacolo”

Inedita rivolta estetica e morale di un ministro della Cultura, il nostro. Dopo il party con Napolitano, prende la penna e scrive che forse non vale la pena di penare tanto per gente così schiava e genuflessa

Al direttore – Dopo tanti resoconti, vorrei darle la mia personale versione della “Giornata dello Spettacolo”. Quante bandiere rosse, quanta nostalgia, quanta trepidazione e quanta attesa di una nuova rivoluzione d’Ottobre si agitavano quel giorno al Quirinale, davanti all’austera figura del presidente Napolitano, che come un padre della patria accoglieva i suoi pargoli commossi. “Grazie
per l’alto onore, motivo per me di orgoglio” recitava compita Giovanna Mezzogiorno. “Lei, presidente, rappresenta non solo lo stato, ma i fondamenti etici nei quali tutti noi dovremmo
sempre riconoscerci”. Era commossa, certo, e emozionata la brava Mezzogiorno, ma non al punto di rinunciare a scagliarsi con veemenza contro “l’abuso di potere e il malcostume che troppo spesso prediligono visibilità, vanità, e nepotismo”. Poi, ha preso la parola Massimo Ranieri il quale, per lanciare il suo accorato appello, ha citato il poeta Garcia, Lorca: “Il Paese che non aiuta il teatro o è morto o è moribondo”. E intanto io, guardando da lontano il tricolore sullo sfondo del cielo, e soprattutto il rosso delle nostre bandiere, ripensavo ai versi di Pasolinì nelle Ceneri di Gramsci: “Uno straccetto rosso, come quello/ arrotolato al collo ai partigiani/ e, presso L’urna, sul terreno cereo,/ diversamente rossi, due gerani/”, finché lo scroscio di applausi e l’ovazione al compagno Ranieri, per il suo dire fiero e battagliero, non mi hanno richiamato alla realtà. Davanti a tutto quel genuflettersi e inchinarsi di attori e attrici, di artisti e commedianti, di registi e teatranti, di cantanti e cantautori, quasi quasi mi dispiaceva di aver previsto leggi che non contempleranno più la posa prona, il servaggio, l’accattonaggio dell’artista al politico. Mi sembrava dì aver tolto dignità al servo, liberandolo. “Liberamente servi e non sarai servo” diceva il poeta Menandro, e non sbagliava. E invece io negli occhi di quei tanti artisti schiavi e piani leggevo solo il disprezzo e l’irrisione verso chi – come me – crede sinceramente nel valore della cultura e cerca di fare qualcosa di concreto a favore degli uomini di cultura. Quasi quasi mi sarei dovuto pentire di aver reintegrato il Fus, piuttosto che destinare quei fondi al patrimonio storico. A che serve, pensavo, dare loro soldi e ragioni, se ad animarli non è il ,fuoco dell’arte, ma un pregiudizio politico ostinato, se è soltanto un cieco odio atavico che li strugge, perché non trova più il modo per ma fiacca le energie necessarie alla creazione di un capolavoro?

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