Le potenzialità che il Fondo Monetario Internazionale potrebbe sviluppare nel contesto di quella che Dominique Strauss-Kahn, suo direttore generale, definisce la “Great Recession” sono esageratamente estese. Storicamente, il Fondo era nato nel 1944 per promuovere una cooperazione economica fra gli Stati più sviluppati e inaugurare un framework di discussione su problematiche globali come esito naturale alle esigenze di tutela dei capitali a seguito della depressione degli anni ‘20-’30. Il guscio di protezionismo in cui si erano rinchiuse la maggior parte delle nazioni ad alto potenziale economico per fronteggiare la depressione aveva, infatti, creato ed esasperato una situazione di stallo a livello mondiale: importazioni ed esportazioni erano bloccate, operazioni finanziarie e mobilità delle risorse umane erano circoscritte a livello nazionale e l’intero sistema degli asset economici e dei cash-flows era congelato a causa dell’elevazione di forti barriere doganali che scoraggiavano qualsiasi operazione transnazionale.
Se lo scopo era, a partire da Bretton Woods, l’ottenimento di una stabilità dei tassi di cambio grazie al gold exchange standard nonché la nascita di un forum in grado di utilizzare al meglio i trade-off di un’economia bloccata, per mezzo anche di un sistema di finanziamenti e prestiti, oggi, sebbene abbandonati i meccanismi di cambio fisso, il ruolo di quest’istituzione non è verosimilmente regredito a semplice “fantoccio internazionale”, tuttavia non viene sfruttata appieno la sua vitalità taumaturgica nei confronti di una congiuntura ormai claudicante per via del duro colpo inferto al mercato americano dei subprimes dalla metà del 2007. L’impianto di governance dell’FMI è intrinsecamente lobbistico, legato in primo luogo alla World Bank, con cui condivide l’atto di nascita, e in secondo luogo agli interessi degli Stati che la finanziano maggiormente e che esercitano una serie di pressioni, grazie al contributo degli shareholders di maggioranza, in grado di condizionare pesantemente la policy interna e esterna, financo a disattendere quelle che sono le direttive generali manifestate dall’esecutivo ufficiale.
I ministri delle finanze e i governatori delle banche riuniti nel G-20 hanno lanciato proprio in questi giorni un appello all’FMI, fissando alcune priorità: stimare l’impatto degli interventi effettuati dai governi e dalle banche centrali di numerosi paesi sull’economia globale nonché aumentare la liquidità del fondo e delle sue risorse in modo tale da poter concedere prestiti a governi e istituzioni a rischio bancarotta, avvalendosi però di garanzie serie e tassi penalizzanti contro l’uso immotivato del credito. Ma un passo avanti deve essere ancora compiuto, l’auspicio maggiore proviene coralmente dallo scenario politico del G-20: diminuire il peso delle nazioni dominanti e bilanciare la perdita di tale veto con l’acquisizione di una voce maggiore in capo ai paesi in via di sviluppo, quei paesi che in maggior misura usufruiscono dei consigli e dei pareri tecnici dell’FMI e che potrebbero dare un serio contribuito all’economia mondiale, grazie a un responsabile e razionalizzato sfruttamento delle molteplici risorse lascivamente dimenticate nei loro circoscritti confini nazionali.
In sostanza, l’atteggiamento mondiale si mostra ancora una volta intimamente riluttante verso meccanismi lobbistici di conduzione degli affari, chiedendo trasparenza e regole in grado di frenare la discrezionalità nelle scelte meno tecniche. Nonostante tali buoni propositi, però, non si va oltre il semplice desiderio di riforma, non emergono volontà di azione comune, non si passa dalle parole all’effettività. Quid novi?