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Da IlGiornale: “La forza per risorgere”

«Dio mio, non dovevi farmi questo». Sono le parole di un uomo che ha perso, sotto le macerie de L’Aquila, due sue figlie. È l’interrogativo che ogni credente ha dinanzi al male che lo coglie e non riesce ad afferrare la provvidenza di un Dio onnipotente nella vita che gli è tolta, sia essa la propria e, ancor più, quella delle persone care. E questa domanda sale da tutto un popolo cristiano come è il popolo abruzzese. Nelle litanie dei santi, che erano un elemento portante della liturgia tradizionale, i cristiani invocavano da Dio la liberazione dal flagello del terremoto, messo allora alla pari della fame, della guerra e della peste.
La domanda sale anche più forte perché colpisce in terra aquilana la distruzione delle chiese, novanta secondo la tradizione. Ed è colpita la basilica di Collemaggio, la gloria di Celestino V, colui che pensò che essere monaco era più importante che essere Papa. L’Aquila mostra i suoi campanili dimezzati, anche quello di San Bernardino. Sembra che il terremoto si sia scagliato contro i simboli cattolici con un’energia e una potenza di distruzione ancora maggiore di quella che devastò l’Umbria nel 1997 e colpì ad Assisi il San Francesco di Giotto.
Non è stata notata la coincidenza del terremoto abruzzese con la liturgia della settimana santa, il suo sovrapporsi, nella realtà della morte e della distruzione, ai simboli liturgici della passione di Cristo. E la liturgia legge nella domenica delle palme il vangelo di Marco. È il vangelo che dà della passione di Cristo la versione più drammatica, perché pone sulle labbra di Gesù le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gli altri vangeli, specie quello di Giovanni, nascondono queste parole, che, pur essendo testimonianza di una perfetta fedeltà verbale, perché citano l’inizio del salmo 21, mantengono però la loro radicale crudezza. Eppure in quel vangelo avviene il singolare fatto di un centurione romano che, vedendo la morte di Gesù, esclama: «Questo è veramente il figlio di Dio».
Il popolo abruzzese è stato formato dalla liturgia cattolica e ha sofferto nella sua storia numerosi terremoti, è diventato un popolo che conosce il soffrire e vede in questo un rapporto con il figlio di Dio che manifestò umanamente il volto di Dio nel mistero dell’uomo. La coscienza umana sopporta la necessità del morire e in questo ha visto la vita divina sorreggere il sentimento del contrasto tra lo spirito che si sente immortale e un corpo che sa di morire. Per questo il popolo abruzzese reagisce alla sofferenza affermando la continuità della vita, rimotivandosi a vivere. Il terremoto rappresenta sempre un sentimento di una impotenza umana, la piccolezza dell’uomo di fronte a una terra che non è amica e su cui egli costruisce la sua tela di civiltà, le sue umili case, le sue splendenti Chiese che vivono nella precarietà di una terra che può scuotere l’uomo come questi scuote le formiche.
Questi sentimenti cristiani sono nel fondo della coscienza popolare e spiegano la solidarietà universale che unisce coloro che non hanno avuto la prova del terremoto a rischiare le loro vite per salvare ciò che rimane nascosto sotto le macerie. È la vita che rifluisce e vi è un impegno umano ad appropriarsi e portare su di sé la disperazione che può invadere il cuore di chi è stato privato dai suoi affetti più cari. Quasi a consolare nella tragedia umana coloro che di questa condizione sono rimasti vittime. L’Italia intera si è sentita ferita nello strazio senza nome che ha colpito una terra così intrisa di simboli cristiani, così ricca di tutta la storia e di tutta la bellezza che ha nidificato nel nostro paese e che in Abruzzo risplende pur nelle ferite e nei campanili mozzi, nelle strade distrutte. Quando la terra non è amica, l’uomo è portato a mostrarsi più amico dell’uomo, anche se il bene e il male si mescolano sempre assieme e lo sciacallaggio si nasconde nelle parole di soccorso. Questa solidarietà italiana e umana è come l’attesa della resurrezione dell’Abruzzo, della sua Pasqua.

 

 

 

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