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Da il Predellino: Il limite è l’onestà intellettuale. Che manca a Franceschini

“Le sue fragorose traversie coniugali sono un fatto privato: dica ai suoi seguaci che non si azzardino a farne aggressivamente tema pubblico, anche se l’opposizione volesse cavalcare il danno d’immagine che il conflitto con la signora Veronica Lario potrebbe procurargli”. Così Pierluigi Battista sulla prima pagina del Corriere della Sera. Un’esortazione che andrebbe innanzitutto rivolta ai nostri avversari, visto che a buttarla in politica è il duo Franceschini – Di Pietro, l’alleanza virale che sta distruggendo l’opposizione nel nostro Paese. Pierluigi Battista coglie bene la condizione in cui si trova la sinistra in Italia quando scrive che “l’opposizione ha difficoltà ad elaborare la percezione di schiacciante inferiorità in cui versa, un misto di crescente invisibilità mediatica e di disattenzione pubblica che acuisce il disagio di chi crede di aver perso troppo […] Un anno fa ha subito una disfatta storica, molto più devastante, sul piano della psicologia politica, di un normale rovescio elettorale. Sente montare un destino frustrante di marginalità e di irrilevanza. Assiste attonita al trionfo incontrastato del suo avversario. Vede sbriciolarsi i contrappesi che in passato le hanno lenito l’angoscia delle sconfitte elettorali: dalla magistratura al potere economico, ai media e persino in una parte del sindacato”.
Ciò che manca a questa analisi è la dimensione storica, il non cogliere che nel 2009 si compie ciò che si era manifestato allo stato nascente, come scriverebbe Francesco Alberoni, nel 1994.
Allora Silvio Berlusconi conquistò la maggioranza degli italiani – nelle europee del giugno Forza Italia era al trenta per cento – con la promessa di un radicale cambiamento che avrebbe portato l’Italia fuori dal disastro della partitocrazia. Fu la partitocrazia – strumentalizzando anche Bossi e la Lega Nord – a reagire con tutti i mezzi a sua disposizione per distruggere il leader venuto da fuori. Ne sono seguiti quindici anni di dura lotta politica nei quali l’ultima trincea di resistenza del passato è stata l’Unione di Prodi – l’alleanza elettorale da Diliberto a Mastella passando per Di Pietro – che si è suicidata nello scontro di potere più di basso impero che la storia repubblicana abbia conosciuto.
La sinistra italiana, nel 2008, ha finalmente conosciuto quella sconfitta storica che era iniziata nel 1989, con il crollo del muro di Berlino e che il belletto del potere costituito – magistratura, università, giornalismo, senso comune post-sessantottino – e una supposta e auto-attribuita superiorità morale hanno mascherato per oltre quindici anni.
In Italia la sinistra ha sempre percorso la strada opposta a quella di tutta la sinistra europea. Ha scelto il comunismo invece che il socialismo nel 1948, relegandosi all’opposizione di sistema nelle piazze e alla consociazione in Parlamento per quarant’anni; ha scelto l’estremismo rivoluzionario nel 1968 – abbandonando da subito qualunque ipotesi libertaria e socialista – trovandosi poi a dover fare fronte al terrorismo rosso; ha scelto di uccidere Craxi e i socialisti alla caduta del muro di Berlino, quando la classe dirigente del Pci avrebbe dovuto puntare dritto all’unità socialista e alla trasformazione socialdemocratica.
Ora questa storia è finita per sempre e non è accidentale che la sinistra tocchi il suo minimo storico quando i comunisti si eclissano dal Parlamento. Non è il voto utile per il Pd veltroniano del 2008 ad aver svuotato la cassaforte elettorale dei “rossi”, che valeva il dieci per cento solo due anni prima. È la fine di un pensiero politico che passa dalla rivoluzione anticapitalista al plebeismo moralista e giustizialista nel volgere di una breve stagione. Fausto Bertinotti, l’unico che ha cercato di dare una dimensione contemporanea al comunismo, è stato spazzato via dal suo elettorato che lo voleva insieme luddista e dipietrista. Come ha ben compreso il suo responsabile del lavoro (la cosa più importante nel partito comunista) già sindacalista del Fiom – Maurizio Zipponi – che ha scelto il partito del questurino per sopravvivere in politica.
Oggi il successo di Silvio Berlusconi dovrebbe stupire solo i suoi detrattori. Per chi, come me, ha puntato sull’uomo venuto dall’impresa sin dal 1993, oggi siamo dove avremmo dovuto essere quindici anni fa. E non spetta a noi limitare la nostra azione perché l’opposizione è in cocci.
Dunque l’esortazione di Battista – non ci si azzardi a fare del divorzio tema pubblico – va rivolto innanzitutto a chi, giornali o partiti non importa, ha per primo cavalcato le vicende private del premier, compresa una qualunque festa di compleanno con tanto di foto destinate alla pubblicazione, come fosse il Watergate. Da lì sono venute e sono state amplificate allusioni violente e volgari, frutto anche di quella sobillazione personale di cui ha parlato Berlusconi e che Dario Franceschini, per pura strumentalità politica, ha inteso rivolte al suo partito, così da poter buttare in politica la vicenda privata. È a questa deriva violenta di una opposizione che non ha più nulla da offrire e non ad altro che va posto un limite per – come conclude Battista – “rendere un servizio alla causa italiana nel mondo”.

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