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Com’è difficile narrare il Natale (parola di Manzoni)

Manzoni scrive Il Natale, tra il 15 luglio e il 29 settembre 1813, quando vi appone “la desolata annotazione” (Valter Boggione) explicit infeliciter, che è come dire “mal riuscito”.
D’altra parte, incomincia a ricorrere in questo inno la grande visione manzoniana della misericordia divina, che si china sull’umanità segnata dalla colpa e impotente a procurarsi da se stessa la salvezza, che solo può venire dalla pietà di Dio, da una “virtude amica”.
È il primo riquadro su cui si apre Il Natale.
Nello svolgersi rapido dei versi, assistiamo al fragoroso e vertiginoso rotolare di un “masso”, che dal “vertice” di un costone di montagna, lungo un pendio alto e scosceso – uno “scheggiato calle” – precipita sino al fondo valle, dove si ferma, immobile, ormai nell’impossibilità di ritornare a rivedere la luce sulla “sua cima antica”. A meno che ve lo riporti un gesto amico.
Siamo, così, di fronte all’immagine visiva del dramma del genere umano nel suo decadere dallo stato della grazia alla condizione di peccato umanamente irreparabile e inamovibile:  “Tal si giaceva il misero / Figliol del fallo primo”. Precipitato, così, dalla condanna divina nell’abisso di tutte le sciagure – “all’imo / d’ogni malor” – l’uomo era impotente a levare il suo “superbo collo”.
Nessuno, d’altronde, “tra i nati all’odio”, ossia tra quanti, eredi della macchia originale, erano per natura meritevoli dell’ira di Dio – poteva giungere fino a lui, fino alla sua “luce inaccessibile” (1 Timoteo, 6, 16) a implorarne il perdono, a rinnovare con lui l’alleanza, o a sottrarre l’uomo al potere infernale che lo aveva soggiogato:  “Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir:  perdona? / Far novo patto eterno? / Al vincitore inferno / La sua preda strappar?”.
Solo Gesù Cristo, l’Uomo-Dio avrebbe potuto impetrare la remissione della colpa, ottenere un’alleanza nuova e trionfare sul demonio. È quanto, infatti, avvenne col Natale:  “Ecco ci è nato un Pargolo / Ci fu largito un Figlio:  / Le forze avverse tremano / Al mover del suo ciglio:  / All’uom la mano ei porge, / che si ravviva, e sorge / Oltre l’antico onor”.
Questo Figlio, concepito dalla Vergine e predetto da Isaia, è la “virtude amica” che solleva il macigno giacente inerte nella sua “lenta mole”, o la mano pietosa che rianima l’uomo e lo eleva a una dignità che oltrepassa quella stessa del Paradiso da cui decadde.
E la Chiesa, infatti, non esita a proclamare addirittura “felice la colpa”, che ha “meritato” un “tale e tanto Redentore”, incomparabilmente più eccellente di Adamo, e una grazia assai più preziosa e splendida di quella perduta col suo primo peccato.
E a dire l’abbondanza, il gusto e la bellezza della grazia che scaturisce dal Natale di Cristo, il poeta ricorre alla risorsa delle immagini bibliche:  l’immagine della fonte d’acqua che “scende / E nel borron de’ triboli/ Vivida si distende” com’è detto in Gioele (4, 18) “Una fonte uscirà dalla casa del Signore e irrigherà il burrone delle spine”, l’immagine del miele “stillano mele i tronchi”, che richiama il testo del Deuteronomio (32, 13) “gli fece succhiare miele dalla roccia” e soprattutto l’Offertorium della Messa ambrosiana della vi domenica d’Avvento “In quel giorno i monti stilleranno dolcezza e tutti i colli faranno colare latte e miele”; infine, una terza immagine, quella dei fiori che sbocciano sugli sterpi:  “Dove copriano i bronchi/ Ivi germoglia il fior”, col suo richiamo a Isaia (11, 1) “un fiore (flos) spunterà dalle sue radici”.
A queste suggestive immagini, segue una profonda riflessione teologica. Lo sguardo intenso e orante si fissa sul mistero di Gesù, Figlio di Dio, che il Padre genera dall’eternità, che da sempre e immobilmente possiede l’essere e che immensamente trascende tutto il creato, che esiste per la sua parola:  “O Figlio, o Tu cui genera / L’Eterno, eterno seco; / Qual ti può dir de’ secoli:  / Tu cominciasti meco? / Tu sei:  del vasto empiro / Non ti comprende il giro:  / La tua parola il fe'”.
Ma, per decisione stupefacente, proprio questo Figlio eterno e immenso, per puro gesto di pietà, ha voluto rivestirsi del fango da cui all’origine fu plasmato l’uomo:  “E Tu degnasti assumere/ Questa creata argilla? / Qual merto suo, qual grazia / A tanto onor sortilla?”.
In realtà, nessun merito e nessuna precedente grazia possono spiegare l’onore o la dignità a cui l’uomo fu elevato con l’incarnazione, ma solo l’imperscrutabile disegno divino, in cui sorprendentemente primeggia l’amore misericordioso, rivelando così l’illimitata bontà:  “Se in suo consiglio ascoso / Vince il perdon, pietoso / Immensamente Egli è”.
È, questo della misericordia, che trionfa sul peccato, un tema caro al Manzoni:  non è l’ira, ma la pietà a definire ultimamente Dio, che la elargisce come puro dono, senza riserve, a tutti, perché chi la riceve, imitando la benignità divina, si mostri a sua volta misericordioso. E qui il pensiero va all’avventura di fra’ Cristoforo e alle sue parole perentorie e luminose rivolte a Renzo nel Lazzaretto sul perdonare “sempre, sempre! tutto, tutto!”.
Dopo questa intensa meditazione sul “consiglio ascoso” l’attenzione del poeta ora torna all’avvenimento del Natale, al “vaticinato ostello” di Betlemme, all'”alma Vergine”, che lo diede alla luce, che lo compose “in poveri panni” e “soavemente”, con un’infinita delicatezza materna, lo adagiò “nell’umil presepio”, e quale Dio lo adorò, secondo il canto della liturgia:  “Adorò colui che aveva generato (Quem genuit, adoravit)”.
A questo punto il poeta resta come in assorta ammirazione di quella nascita, circondata dalle festose presenze angeliche:  agli angeli, infatti, il poeta volge la sua attenzione.
Anzitutto all’angelo, che non si reca alle “vegliate porte” dei potenti, ma ai “pastor devoti”, disprezzati e sconosciuti al “duro mondo”, è il giudizio abituale di Manzoni per il mondo. Avvolgendoli di luce, è a loro che il messaggero celeste reca l’annunzio di “tanta sorte”, ossia “la grande gioia” (Luca, 2, 10).
Ma in allegro e luminoso tripudio si unisce a lui tutta una volteggiante schiera angelica. È stato scritto che la strofa è “tra le più deboli dell’intero inno”; al contrario, la annoveriamo tra le belle e armoniose strofe della poesia manzoniana, col felice richiamo all'”ampia notte” e l’immagine suggestiva del “fiammeggiante volo”.
La citiamo per intero:  “E intorno a lui per l’ampia / Notte calati a stuolo, / Mille celesti strinsero / Il fiammeggiante volo; / E accesi in dolce zelo, / Come si canta in cielo, / A Dio gloria cantar”:  un canto gioioso e sacro, che prosegue nel loro ritorno al firmamento e che lentamente si va spegnendo, fin che il gruppo dei pastori, “la compagnia fedel”, non ode più nulla con lo stendersi del silenzio notturno.
Ma ora incomincia il loro felice viaggio:  ricercato senza indugio “l’albergo poveretto”, “in panni avvolto” e “in un presepe accolto”, essi vedono e sentono “vagire” “il Re del Ciel”.
È il mistero dell’incarnazione:  la celeste regalità di Cristo e la sua condizione umana, umile e povera. Manzoni ha ritratto questo mistero animando con la sua poesia e con i suoi sentimenti la narrazione evangelica; ne ha illustrato la profonda teologia sullo sfondo della storia di salvezza. Ora – nella “chiusa che sembra da ninna-nanna:  “Dormi, o Fanciul … Dormi, o Fanciul celeste … Dormi, o Celeste” (Giovanni Colombo) il poeta passa a un tenero inno di lode al Bambino nella culla.
E, tuttavia, il poeta già intravede e riconosce “nella prefigurativa trasparenza del neonato Gesù il Re che un giorno tutti i popoli avranno come giudice”. Veramente, questi popoli “chi nato sia non sanno”.
(da l’Osservatore Romano)

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