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Bentornato presidente

Undici gennaio duemiladieci, ore dodici; è l’emozione di rivedere il nostro Presidente che ci tiene, piedi ancorati al suolo, tutti fermi lì davanti palazzo Grazioli, sotto un cielo grigio grigio, che minaccia pioggia. Come a volerci dire: la lotta non è mica finita!
Dinanzi al lato sinistro dell’edificio, una pletora di fotografi e giornalisti si accrocchiano come avvoltoi dal becco a forma di teleobiettivo. Uno stormo disordinato, nero e fumo, che si aggroviglia su se stesso nel tentativo di inquadrare un pixel di aria in più. Un leviatano di ombrelli, microfoni, scalette, fili, giubbotti, mani, capelli, occhi concentrati al minimo movimento, come un piccione che becca il suo chicco all’erta, pronto a dispiegare le ali alla vista di un bambino dispettoso che lo rincorre.
Nel lato destro dell’edificio, invece, noi. Colorati, vestiti di bianco e di blu dalle nostre bandiere, che ci si spalmano addosso a causa di quel venticello che presagisce tempesta. Siamo frenetici, anche noi, corriamo da un lato all’altro dell’area che ci è concessa di calpestare, per motivi di sicurezza. Ci graffiamo con gli artigli appuntiti delle piante grasse che difendono il cortile antistante il palazzo, ma non possiamo fare a meno di sporgerci in avanti, quasi nel tentativo di far sparire ogni ostacolo e correre da lui ad abbracciarlo, con sincerità e trasporto.
Eccoci, ci siamo quasi. Srotoliamo lo striscione preparato in fretta e furia la sera prima, eppure impeccabile. “Bentornato, presidente!” le parole più sincere e dirette che potevamo dirgli. Gli avvoltoi scalpitano, sembrano agitarsi sempre di più, sanno che lui sta per arrivare ma non possono rinunciare a fotografarci e ci chiedono di orientare lo striscione verso di loro. Una spruzzata di “clic” si sparge nell’aria schiarita dai flash e qualcuno dalle file più remote della calca sembra urlare da lontano “Aspettate!”, per usufruire anch’egli della visione, dopo che le morse della folla si sono un po’ allentate.
Le guardie del corpo di sicurezza cominciano a parlare freneticamente coi loro aggeggi seminascosti ed ecco che, dopo qualche secondo, arriva una prima, poi una seconda vettura e lui esce dall’auto dai vetri oscurati, senza nascondere la sorpresa di averci rivisti ancora una volta, ancora al suo seguito, freschi giovani energici e onesti. Viene subito da noi, dimentico di quei giornalisti assetati di parole. Ci mostra orgoglioso, come un ragazzino che rigira fra le proprie mani le chiavi del suo primo motorino, un giaccone regalatogli da Putin. Trofeo personale di politica estera e simbolo delle sue capacità carismatiche e di confronto con gli altri leader mondiali. Poi ci mostra il volto, la guancia con ancora il solco indelebile lasciato: “Ancora non sono tornato come nuovo, ma dentro mi sento più forte di prima”!
“Presidente, l’ha ricevuto il nostro messaggio di auguri? Il video che abbiamo fatto per lei?” sono riuscita a dirgli, nella titubanza della timidezza che mi assale al suo cospetto. Lui mi stringe la mano e mi dice che sì, l’ha avuto e ne è stato fiero. Questo mi basta per continuare a fare quello che faccio. Il resto, basta leggerlo sui giornali.

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