Venerdì è stato approvato alla House of Representatives americana un bill of rights per l’ambiente che si propone di ridurre le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra e di incentivare l’uso delle fonti energetiche ecosostenibili. Se questo documento verrà approvato anche dal Senato passerà alla storia come uno dei primi papers capaci di allineare gli indisciplinati Stati Uniti agli standard europei. Ori e allori per Obama.
Ma già le prime polemiche sono state sollevate in vista del G8 all’Aquila, non essendosi raggiunto alcun accordo né sul termine iniziale da prendere come riferimento per gli studi scientifici ambientalistici (c’è chi vuole il 1999 e chi il 2005) né sullo scalino di temperatura media mondiale da ridurre entro il 2050, la cui quantità sarebbe tuttora oggetto di litigio.
C’è chi, come il danese Christensen, un pezzo grosso nel campo degli studi sui cambiamenti climatici, teme l’eventualità di un’intesa bilaterale Cina-U.S. Una tale relazione potrebbe avere, non a torto, effetti devastanti per l’intero ambiente essendo entrambi gli Stati i maggiori produttori mondiali di gas-serra. L’instaurazione di rapporti diplomatici bilaterali, che escludano quindi il resto della comunità internazionale, porterebbe quasi sicuramente alla fissazione di standard comuni più bassi fra i due Stati e cancellerebbe nell’immediato i virtuosismi incipienti dell’amministrazione Obama. Deludendo le aspettative mondiali, quindi, gli Stati Uniti aggirerebbero nuovamente il pesante fardello del global warming e sarebbero, ahimé, seguiti a ruota libera da paesi in via di sviluppo con emissioni alte, come l’India, o da paesi con politiche forestali detrimenti, come il Brasile, che per sottrarsi a responsabilità nella comunità internazionale, si potrebbero tranquillamente appigliare al rispetto degli standard statunitensi. Senza contare che la produzione capitalistica americana e asiatica, vincolata a misure di sicurezza e standard minori rispetto alle industrie del vecchio continente, sarebbe in grado di competere a costi minori – e già lo fa -, facendo leva su un maggiore impatto concorrenziale e creando esternalità negative (per l’appunto l’inquinamento) che inevitabilmente finirebbero in parte a carico anche delle imprese europee, sempre più indotte a delocalizzare i loro stabilimenti. Un eterno circolo vizioso.
L’aggravamento di questo circolo non può che portare a una flebile ma inarrestabile recessione economica per l’Europa, sempre più dipendente dall’Asia per risparmiare su manodopera e lavorazione delle materie prime. Tuttavia, in questo modo, i paesi in via di sviluppo non potranno più contare sui fondi e sugli stanziamenti dei paesi economicamente avanzati in grado di consentire a loro di avviare processi di allineamento con gli standard antinquinamento necessari a proteggere l’ambiente. Per evitare questo scenario catastrofico, l’unica via possibile, in occasione del summit dei big mondiali, è la ricerca di una delicata e probabilmente esplosiva alchimia politica che faccia mettere tutti anche solo temporaneamente d’accordo e che tenti di raggiungere un equilibrio necessario e auspicabile.