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L’ambrosia sotterranea e l’apocalisse

Nettare degli dei del business mondiale, il petrolio è una delle possibili chiavi di lettura che rende, se non plausibile, quanto meno comprensibile la tanto discussa profezia della fine del mondo nel 2012. Fra qualche anno, infatti, potrebbe innescarsi una serie di eventi a catena che renderebbe attoniti tutti coloro che oggi scimmiottano le antiche previsioni del calendario maya. Non ci credete?
La Nigeria è oggi il quinto paese fornitore di petrolio degli Stati Uniti. Sono circa 37 i miliardi di barili prodotti nel solo 2009. Ma si potrebbe fare di meglio. Gran parte dell’oro nero proviene, infatti, da una regione ad altissimo tasso di inquinamento: il delta del Niger. Dai fori delle trivellazioni e dalle valvole di sicurezza degli oleodotti, tuttavia, fuoriesce ogni anno più petrolio di quello che ad oggi si è riversato nelle acque del Golfo del Messico, ma nessuno sembra farne menzione. L’impatto ambientale è spaventoso. Le zone contaminate sono ormai estese in tutta la regione. La vegetazione nigeriana ha assunto da anni una colorazione plumbea e le acque salmastre, intrise di chiazze di greggio, esalano un odore putrido di officina. Per di più, l’aspettativa di vita media si attesta sui 41 anni. La popolazione locale, dedita da secoli alla pastorizia e all’agricoltura, non trova sostentamento se non dall’ambiente. Ambiente che, negli ultimi vent’anni, è stato fonte di carestie, malattie e sottosviluppo. I casi di leucemie e tumori, ad esempio, sono aumentati ad un ritmo esponenziale.
I fattori che inaspriscono la situazione sono molteplici. Le compagnie petrolifere vanno al risparmio, guardandosi dal sostituire le reti di oleodotti ormai obsolete e utilizzando materiali poco costosi per costruire nuove stazioni, cosa che provoca sempre più perdite e incidenti. I nigeriani, dal canto loro, fanno il doppio gioco. Se da un lato, fanno appello alla comunità internazionale per chiedere interventi al fine di ridurre le ingenti fuoriuscite di petrolio, dall’altro sono i principali sabotatori dei pozzi, mediante allacciamenti illegali o ordigni esplosivi, allo scopo di lucrare sui profumati rimborsi che ricevono dalle compagnie come indennizzo per l’inquinamento da esse causato. Terzo fattore fondamentale è la presenza del Mend, movimento guerrigliero per l’emancipazione del delta del Niger, i cui componenti organizzano frequentemente attentati terroristici contro gli stabilimenti petroliferi, aumentando le contaminazioni e l’instabilità politico-sociale della regione.
Se fra qualche anno, poniamo il caso verso la fine del 2012, i ribelli del Mend si fossero talmente addestrati da ottenere il controllo della regione, riducendo di un terzo la già fragile popolazione locale, sarebbe verosimile che i loro principali obiettivi sarebbero gli oleodotti stranieri, sicura fonte di ricchezza. La crisi petrolifera in Nigeria provocherebbe la reazione immediata degli americani, i quali considererebbero la ribellione una minaccia alla sicurezza energetica statunitense e vi invierebbero certamente delle truppe.
Tutto qui? Niente affatto.
Le conseguenze della crisi petrolifera nigeriana si ripercuoterebbero nel resto del mondo. L’offerta di greggio sarebbe destinata a ridursi sensibilmente, non soddisfacendo più la crescente domanda e provocando, quindi, una nuova recessione economica. Per fronteggiare la crisi, i paesi industrializzati concentrerebbero le loro ricerche nelle estrazioni offshore, tentando di ottenere tecnologie sempre più sofisticate in grado di spillare petrolio negli abissi marini a più di quattromila metri di profondità, sotto strati di sabbie e sali. I rischi di incidenti come quello della Deepwater sarebbero sempre maggiori. Dall’altro lato, poi, si punterebbe alla conversione del sistema energetico su altre fonti. Ad esempio, i biocarburanti.
Che di “bio” hanno solo la dicitura, considerato che le coltivazioni di mais che fungono da materia prima richiedono un uso intensivo dei terreni. Quindi, massiccio bombardamento delle terre di fertilizzanti. Composti azotati che favoriscono la proliferazione delle alghe nelle acque reflue. Alghe che si riversano nei mari, eliminando la biodiversità a causa della loro ingordigia di ossigeno. Questo ciclo avviene già oggi nel Mississippi. Risultato? Massiccia desertificazione, danni faunistici e inquinamento atmosferico da gas flaring.
Roba da Armageddon? Le previsioni degli esperti sembrano essere terribilmente attendibili. La soluzione a tutto ciò, ovviamente, sarebbe consumare di meno. Nell’era del consumismo, però, di fantascientifico c’è solo la speranza di ottenere comportamenti virtuosi con dei semplici appelli.

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