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I primi cinque anni di un pontificato benedetto

Nomen omen. Oggi, a cinque anni di distanza dall’inizio del pontificato di Papa Ratzinger, possiamo affermare con certezza che l’elezione al soglio di Pietro dell’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha rappresentato, per la Chiesa, per i cattolici e per coloro che guardano al cristianesimo senza pregiudizi di sorta, un’autentica benedizione.
Non soltanto a motivo dei gesti compiuti, delle parole pronunciate, delle importanti decisioni assunte in questo lustro, ma anche e soprattutto perché Benedetto XVI ha saputo – e sa – guidare con sapienza, fermezza ed umiltà la barca di Pietro in anni burrascosi, in un tempo difficile per la Chiesa, per la fede e per il mondo: come ha osservato Gian Guido Vecchi in un bell’articolo apparso domenica sul Corriere della Sera, Ratzinger è stato «come il kybernetes di Aristotele, il timoniere che governa la nave e sa mantenere il “giusto mezzo”. Che non è una mediocre e facile equidistanza, ma all’opposto la cosa più difficile: seguire la rotta mentre la barca è sballottata dalla tempesta». Tutto ciò è stato evidente sin dagli albori dell’attuale pontificato: mentre un certo trionfalismo venato di sentimentalismo accompagnava la fine del lungo regno di Giovanni Paolo II, e mentre molte analisi parziali e superficiali, nei giorni della sede vacante e del pre-conclave, terminavano con l’auspicio di una replica pedissequa del papato wojtyliano, Ratzinger fu l’unico che seppe rompere questo clima di ingenuo ottimismo, ricordando a tutti, con la sua omelia durante la messa pro eligendo pontifice, che quello che stavano attraversando la Chiesa e i credenti era un tempo confuso e tormentato: il futuro Papa affermò infatti che negli ultimi decenni «la piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata» e «gettata da un estremo all’altro dalle correnti ideologiche, dalle mode del pensiero». E aggiunse: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Un monito duro, che faceva il paio, per quanto riguarda l’aspetto interno alla Chiesa, con le clamorose espressioni contenute nelle meditazioni per la Via Crucis del 2005: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute!». Se i media, una certa opinione pubblica e alcuni settori del cosiddetto «mondo cattolico» avessero preso sul serio da sùbito queste parole di Ratzinger, avrebbero evitato, nel corso degli ultimi cinque anni, di trasmettere un’immagine falsata del suo pontificato: l’immagine cioè di Benedetto XVI rigido conservatore, uomo del passato, nostalgico del bel tempo che fu, intento solamente a riportare indietro di quarant’anni, se non di secoli, le lancette della storia della Chiesa. Avrebbero compreso che quello del teologo tedesco è un papato che si muove sostanzialmente lungo le coordinate della riforma, ossia della sempre urgente presa di coscienza del fatto che la fede cristiana, fondata sull’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Dio fattosi uomo in Gesù di Nazareth, richiede, in ogni tempo e in ogni luogo, la conversione del cuore della persona in carne ed ossa, quindi dentro le circostanze storiche che essa si trova a vivere. Come già Joseph Ratzinger scriveva nelle sue opere giovanili, la rivelazione della verità eterna implica sempre un soggetto a cui essa è rivolta: e questo soggetto, l’uomo, non vive al di fuori del tempo e dello spazio, ma si colloca all’interno di una storia, dentro la quale egli è chiamato a testimoniare la novità e la sempiterna freschezza dell’avvenimento cristiano, a diventare «creatura nuova», ad essere infine «segno di contraddizione». In questo senso vale la tradizionale espressione latina secondo cui «Ecclesia semper reformanda»: la Chiesa – come il cristiano – ha bisogno ogni giorno di dire il suo «sì» alla chiamata di Dio, di rinnovare la sua fedeltà e la sua gratitudine al suo Fondatore, di affidare a Lui le fatiche, le angosce e le difficoltà del cammino, di chiedere perdono per i peccati commessi, di essere purificata grazie alla potenza redentrice del Padre.
Tutto il pontificato di Benedetto XVI si è mosso e si muove lungo questa direttrice. E ciò è ancor più evidente oggi, nella risposta che il Papa ha saputo fornire di fronte allo scandalo dei preti coinvolti in casi di pedofilia, da ultimo con la decisione di incontrare, durante il suo viaggio apostolico a Malta, alcune vittime di abusi. La scelta della cosiddetta «linea dura» e della trasparenza, lungi dal rappresentare un cedimento o una tacita resa di fronte alla deformante campagna d’odio che punta a delegittimare la Chiesa intera raffigurandola come una congrega di pedofili, nasce dalla profonda consapevolezza che «la penitenza è grazia; è una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, è una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere… Noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare» (Omelia tenuta da Benedetto XVI il 15 aprile 2010 di fronte ai membri della Pontificia Commissione Biblica). La vera riforma, dunque, è proprio questa: è Dio che ri-forma ogni giorno, con la Sua grazia, la Chiesa e il cuore dei fedeli; ed è la disponibilità della Chiesa e dei fedeli a riconoscere il proprio peccato e a lasciarsi abbracciare dalla misericordia divina, che «fa nuove tutte le cose». Prima ancora che aggiornamento delle istituzioni e delle strutture ecclesiastiche, insomma, l’autentica riforma è la capacità di inginocchiarsi di fronte all’Onnipotente chiedendo a Lui il miracolo del cambiamento e la forza per una testimonianza coraggiosa in mezzo ai marosi della storia. Non a caso, durante la messa domenicale celebrata a Malta, Benedetto XVI ha rievocato la figura di San Pietro, che «durante la passione del Signore, lo ha rinnegato tre volte. Ora, dopo la resurrezione, Gesù lo invita tre volte a dichiarare il suo amore, offrendo in tal modo salvezza e perdono, e allo stesso tempo affidandogli la sua missione». Tutti i primi cinque anni di pontificato di Papa Ratzinger sono stati – e sono – un incessante richiamo a questa verità della fede, a questa quotidiana possibilità di salvezza per ogni uomo. Se la Chiesa seguirà il vicario di Cristo nella strada che egli sta coraggiosamente percorrendo, uscirà dalla tempesta di questi tempi ancora più forte e con una coscienza ancora più chiara della sua vocazione e della sua missione nella storia (Ragiornpolitica).

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