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Gli intellettuali e i loro errori

Sono usciti di recente due libri che, nonostante la lontananza ideologica dei rispettivi autori, convergono nella tesi fondamentale: 1989 di Angelo d’Orsi (Ponte alle Grazie, pp. 318, € 16) e I conformisti di Pierluigi Battista (Rizzoli, pp. 224, € 18).
A giudizio di entrambi, gli intellettuali sono «conformisti». Per l’uno si tratta di conformismo verso il potere che ha vinto dopo 1’89, cioè il centrodestra che tutto piega a sé; per l’altro si tratta di conformismo nei confronti di una mai estinta anzi sempre risorgente mentalità «di sinistra» (di cui Odi-freddi e Camilleri, bersagliati al termine del libro da due sferzanti lettere aperte, sarebbero il simbolo e la incarnazione). Entrambi gli autori concludono la loro ricostruzione ordinando perentoriamente agli intellettuali di smetterla con il conformismo e di attenersi al dettame, che definirei socratico,sdi «dire la verità».
E’ difficile che abbiano ragione entrambi. Non è improbabile che abbiano torto entrambi. Quel che si lamenta in tali analisi è:
1) l’innalzamento di un campione a fenomeno generale,
2) l’assunzione del proprio punto di vista come l’unico valido (una sorta di occhio di Zeus che vede l’intera umanità dall’alto),
3) la carente riflessione definitoria sulla nozione di intellettuale,
4) la sopravvalutazione dell’efficacia politico-sociale di tale «ceto»,
5) l’incomprensione della capacità che talvolta esponenti di tale ceto hanno di cogliere prontamente i mutamenti della realtà,
6) la considerazione che non sempre il mutamento di convinzioni è tradimento conformistico stante che può anche trattarsi di presa d’atto delle «lezioni della storia» o, per meglio dire, di quelle che a un certo momento, a torto o a ragione, paiono tali.
La fustigazione del ceto intellettuale non è un atteggiamento del tutto nuovo. Non da oggi gli intellettuali che «si schierano» vengono considerati (da coloro che si schierano dalla parte opposta) conformisti, mentre per altro verso gli intellettuali che non «si schierano» ma esercitano sempre e comunque critica e dissenso vengono non di rado bollati come «anime belle» e «grilli parlanti». La somma di tali critiche è zero. Dunque nei discorsi generali sugli intellettuali c’è qualcosa di semplificatorio. E infatti nel volume di Battista il pregio è in alcuni scandagli di casi particolari. Altrimenti c’è il rischio di superficialità, anche se il risultato — a prima vista — può essere spiritoso: come nel Dictionnaire des girouettes diffuso anonimamente nel 1815, contenente la lista di centinaia di «carriere» (connotate da una bandierina a ogni mutar di posizione di ciascun personaggio) o come nel dizionario allestito da Nino Tripodi in pieno postfascismo, Intellettuali sotto due bandiere. Secondo me è preferibile affrontare queste questioni alla maniera di Ruggero Zangrandi nel Lungo viaggio attraverso il fascismo.
Lo studio dei comportamenti degli intellettuali nel corso e nelle convulsioni della storia d’Italia fu, com’è noto, un tema essenziale della riflessione carceraria di Antonio Gramsci e sarebbe stato studio ancor più completo e profondo se la sua vita non si fosse spezzata all’indomani stesso della scarcerazione. Quel compito storiografico però non è rimasto inattuato e numerosi studi parziali o di ampio respiro si sono susseguiti nel tempo e hanno portato frutti non da poco, anche quando gli studiosi che li hanno realizzati approdavano a sentimenti opposti (penso a Cervelli da un lato e a Di Rienzo dall’altro, a proposito di Gioacchino Volpe).
Per concludere toccherò un paio di punti di quelli accennati al principio. L’intellettuale «militante» (che al suo avversario può apparire un «conformista») è di necessità schematico. Il suo presupposto è quello luterano: «Io qui sto». Ma nella categoria di «intellettuale» non conviene annoverare, come si usa fare, essenzialmente i professori di facoltà letterarie e i giornalisti loro usuali interlocutori. Intellettuali sono moltissime altre figure: dagli statistici ai giuristi ai matematici ai fisici (che «pensano» l’universo) ai genetisti (che «pensano» l’evoluzione umana) agli economisti ai dirigenti di colossi finanziari ai tecnici agli ingegneri agli architetti (Vitruvio accanto a Cesare è un esempio interessante). Tutti costoro hanno molto più peso nel loro agire sociale e nel dispiegarsi delle loro competenze (dunque in quanto «intellettuali») che non gli studiosi di belle lettere o delle lezioni postume di Lacan (dal Corriere della Sera del 25 febbraio).

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