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Elezioni e voto cattolico

Caro direttore, non è mio costume intromettermi nelle vicissitudini altrui, e non contravverrò a questa abitudine di fronte alla decisione di Paola Binetti di abbandonare il Pd per entrare nell’Udc. Ma non si può far finta di non vedere che questa scelta, le motivazioni che l’hanno accompagnata e il dibattito che essa ha suscitato all’interno del Partito democratico pongono un tema più generale che non può essere sottaciuto, né liquidato come fa Massimo D’Alema con una semplicistica dicotomia tra “integralismo” e “militanza in un partito plurale”. Prescindendo dalla situazione specifica, si può assumere il “caso Binetti” come paradigma per una riflessione schietta sul significato che assume oggi il voto cattolico. A lungo, infatti, in Italia esso è stato pressoché monopolizzato da un partito unico egemone che la Chiesa ha assunto come suo “braccio secolare” attraverso il quale veicolare le proprie istanze. Con la fine della Prima Repubblica, e il tramonto del partito unico di riferimento, l’elettorato cattolico si è “secolarizzato”: adulti o infanti che fossero, i cattolici hanno iniziato a votare “laicamen te” per l’uno o per l’altro schieramento, per il candidato, il programma o la coalizione dai quali maggiormente si sentono rappresentati. All’indomani di questa storica svolta della politica italiana vi fu addirittura chi – come il cardinale Martini nel dicembre ’95 in occasione della festa di Sant’Ambrogio – si spinse a teorizzare che la sede naturale di questa rappresentanza fosse la parte sinistra dell’arco costituzionale.
In fondo la presenza di Paola Binetti nel Pd incarnava proprio l’attualità di questo “trasversalismo”, che avrebbe dovuto garantire ai cattolici e ai loro principi diritto di cittadinanza e di espressione nell’ambito di ogni partito e di ogni schieramento. Col tempo, però, l’impressione è che a sinistra si sia scivolati verso un mero diritto di sopravvivenza, a patto di relegare il proprio credo religioso nel ghetto della coscienza individuale. Il sostegno del Pd alla candidatura di Emma Bonino nel Lazio, e soprattutto le ragioni che l’hanno motivato, stanno a significare non solo che questo processo è in atto, ma che ha compiuto un salto di qualità. Ed evidenzia un problema più profondo: la strisciante affermazione di un secolarismo in nome del quale i principi cattolici rischiano di essere espulsi dallo spazio pubblico. E questo, proprio in un momento in cui temi come la vita e la morte, la famiglia e l’educazione, centrali nel magistero della Chiesa cattolica, si affermano prepotentemente al centro dell’agenda politica. Questa deriva, a mio avviso, rappresenta l’esatto contrario di una autentica e sana laicità, che non mette in dubbio l’autonomia delle scelte politiche rispetto al credo religioso, ma allo stesso tempo non impedisce alla fede di chiedere conto di come i suoi principi siano tutelati, e alla Chiesa di esprimersi nello spazio pubblico come attore del dibattito. Il timore che nutro è che il senso profondo di questa “laicità positiva” si stia smarrendo per lasciare spazio a una concezione intimistica della fede, indifferente a ciò che accade nel mondo reale. Per questa ragione, soprattutto nel Lazio dove la presenza di Emma Bonino rende tale deriva più evidente, i cattolici dovrebbero pretendere che le candidate dicano come la pensano su sanità, educazione, famiglia, biopolitica, restituendo ai principi lo spazio che spetta loro, e garantendosi di poter scegliere a viso aperto quale persona, quale coalizione, quale programma li rappresenta di più (Il Tempo).

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