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COSIMO FERRI (MAGISTRATURA INDIPENDENTE) INTERVIENE SULLA MEDIAZIONE CIVILE

Per comprendere la portata del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 è utile considerare che esso non trova nella l. 18 giugno 2009 n. 69 la sede occasionale di conferimento della delega a disciplinare la materia, ma piuttosto il luogo dove sono state tracciate le linee-guida della riforma della giustizia civile e dunque il terreno culturale dal quale il legislatore delegato ha tratto ispirazione.
Le linee guida individuabili nell’intervento di giugno 2009 possono essere così sintetizzate: semplificazione procedurale, velocizzazione del processo, contrasto a forme di abuso del processo e della giurisdizione, in una prospettiva di responsabilizzazione del comportamento degli attori del processo civile.
Ciascuno degli interventi normativi di cui alla l. 69/2009 cerca rispondere a una o più delle esigenze descritte.
Il filtro ai ricorsi per cassazione e volto a svolgere con più chiarezza le funzioni assunte con qualche artificio dal quesito di diritto, rafforzando la funzione nomofilattica della Suprema Corte.
Il procedimento sommario di cognizione è mirato a introdurre una relazione tra complessità della causa e oneri istruttori, in modo da stimolare il case management giudiziale.
Il nuovo regime delle spese processuali e della responsabilità aggravata, anche rispetto alla proposta conciliativa giudiziale, punta a sviluppare condotte processuali più corrette.
La mediazione mira a sintetizzare tali esigenze.
Essa è anzitutto un metodo, se e quando funziona, di comporre le controversie in modo semplice, rapido e informale (art. 6, 8, d. leg. 28/2010).
In secondo luogo, la mediazione contiene le forme di abuso del processo. Rispondono a tale finalità la norma sull’obbligo di informativa su questo oggetto posto a carico degli avvocati a pena di annullabilità del contratto di patrocinio (art. 4); le ipotesi di tentativo obbligatorio di mediazione, estese a numerose materie che vanno dalla responsabilità medica alle controversie assicurative (art. 5, comma 1); la disciplina della proposta di soluzione del conflitto che il mediatore può effettuare anche in difetto di accordo tra le parti (art. 11); la conseguente norma sulle spese, che si allinea all’art. 91 c.p.c. riformato dalla l. n. 69/2009, sanzionando, con il relativo regime, chi rifiuta ingiustificatamente la proposta conciliativa (art. 13).
Va detto che la pluralità degli intenti ha reso se non contraddittorio, certamente ibrido il testo normativo.
In esso si mescolano diversi modelli di alternative dispute resolutions: lo enuncia l’art. 1, lett. a), definendo la mediazione un’attività «finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa»; lo dimostrano le norme sul tentativo obbligatorio che coinvolgono settori eterogenei (art. 5, comma 1); e la disciplina sulla proposta formulabile d’ufficio dal mediatore, cui così vengono affidati compiti non solo “facilitativi” dell’accordo, ma potenzialmente anche “aggiudicativi” di torti e ragioni, sia pure senza effetti vincolanti salvi, però, quelli sulle spese  (artt. 11 e 13).
Gli stessi artt. 8 e 11, regolando il passaggio dalla ricerca dell’accordo amichevole alla proposta di soluzione della lite, lasciano la possibilità di modificare e adattare la proposta anche in un momento successivo alla sua eventuale formulazione.
L’esperienza dirà questo ibridismo saprà adattarsi alla realtà italiana del contenzioso, probabilmente ancora acerba e in parte impreparata al fenomeno della mediazione.
L’innegabile finalità deflattiva ha indotto il legislatore a forzare in alcuni punti la tradizionale spontaneità della mediazione, e il regime della proposta che il mediatore può formulare anche se non richiesto in tal senso dalle parti, lo dimostra.
Ma le principali perplessità che circondano l’istituto risiedono nel rischio di attenuazione del significato sociale dell’applicazione del diritto, nel ridursi della funzione giudiziaria di creazione dei precedenti, nella capitolazione delle garanzie. Perché ciò non avvenga si dovrebbe esser prima certi di aver adeguatamente formato mediatori in grado di “produrre” accordi giusti. Cosa su cui al momento possono sollevarsi dubbi.
Per ridurre tali perplessità, comunque, occorre allargare lo sguardo in più direzioni.
Le preoccupazioni legate alla perdita di prestigio del giudizio statale e al venir meno di alcune funzioni fondamentali del processo gestito dai giudici devono tener conto del recupero di spazio che la mediazione consente di realizzare, dei vantaggi che una giurisdizione meno ipertrofica può portare in termini di accrescimento della qualità delle decisioni: la mediazione, assieme alla disciplina del filtro in Cassazione ex art. 360-bis c.p.c., pone la premessa perché il precedente possa svolgere in modo più lineare la funzione di orientamento sull’interpretazione della legge.
Il rapporto tra mediazione e giurisdizione trova nel testo tre punti di sintesi: la previsione di casi di mediazione obbligatoria, l’ipotesi della mediazione delegata dal giudice, e il regime delle spese del processo che segua l’insuccesso del negoziato assistito.
L’ultimo profilo riprende gli spunti avviati dalla riforma dell’art. 91 c.p.c., sanzionando l’ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa coincidente con la soluzione aggiudicativa giurisdizionale. In aggiunta, lascia margine al giudice per dare rilievo, in sede di compensazione delle spese, al rifiuto di proposte anche non formalmente corrispondenti alla sua decisione finale.
Quanto al secondo aspetto è quello su cui i protocolli stipulati tra uffici giudiziari e consigli degli ordini forensi, potranno più lavorare.
In ordine al primo aspetto, l’art. 5, d. leg. 28/2010, delinea la mediazione come condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda (in ciò rispettando il vincolo costituzionale anche secondo quanto ritenuto dal Consiglio Superiore della Magistratura). Il tutto, pertanto, senza vincolare il giudice a un’immediata pronuncia (negativa) in rito qualora la condizione non sia assolta, e, al contrario, imponendogli di aggiornare il processo, senza sospenderlo, previo rilievo d’ufficio o eccezione di parte entro la prima udienza.
La lunga lista di diritti processuali – dalla trascrizione della domanda ai procedimenti urgenti o cautelari o connotati da fonti di prova o situazioni soggettive qualificate (come per i crediti fondati su prova scritta e relative statuizioni monitorie) – il cui innesco non è inciso dalla condizione di procedibilità, dà sostanza all’obbligo, costituzionale, comunitario e proprio della legge delega, di non ledere l’accesso alla giustizia.
A questo si aggiunge la disciplina che, in linea con la giurisprudenza comunitaria, esenta da ogni pagamento i soggetti che sarebbero comunque beneficiari nella lite giudiziaria del gratuito patrocinio.
Il fallimento del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia lavoro potrebbe spiegarsi con la mancanza di professionalità dei soggetti cui è stato affidato. E non è un caso che il d.d.l. c.d. “collegato lavoro” (in via di approvazione definitiva al Senato) lo abroga e ridisegna gli organi conciliativi che lo potranno gestire in regime di facoltatività.
Il panorama italiano offre, del resto, un altro dato che depone in senso contrario a una frizione tra mediazione obbligatoria e suo successo: quello della condizione di procedibilità prevista in materia di telecomunicazioni ex legge n. 249/1997 .
Quanto al dato comparatistico, se ne possono trarre segnali importanti.
In Austria, ad esempio, hanno dato buoni esiti le fattispecie di mediazione obbligatoria introdotte tra il 2003 e il 2005, anche se relative a un ristretto ambito di liti quali quelle di vicinato o concernenti la posizione dei disabili nei luoghi di lavoro.
Ma il termine di riferimento più importante è quello canadese, in cui tutte le controversie civili aventi ad oggetto diritti disponibili sono soggette, da una decina di anni, a una forma di mediazione obbligatoria, che si innesca dopo l’avvio del processo. I dati segnalano che questa esperienza è di rilevante successo.
Secondo vari studi la chiave di questo successo è stata proprio il cambiamento di approccio culturale del foro, che ha valorizzato l’obbligo delle parti di sedersi al tavolo delle trattative.
La versione italiana della mediazione obbligatoria sconta, però, probabilmente, l’ambizione di coinvolgere sia le controversie più sensibili al negoziato sia quelle connotate da maggiore litigiosità, in uno alla necessità di trovare copertura finanziaria al sostegno fiscale varato in forma di credito d’imposta rispetto alle indennità dovute all’organismo di mediazione (art. 20).
Il difficile equilibrio sintetizzato dalla discrezionalità legislativa accomuna quindi contratti di durata (locazione, comodato, affitto d’azienda), rapporti ad alta conflittualità (diffamazione a mezzo stampa, responsabilità medica o da incidenti tra veicoli e natanti), ovvero relazioni che trovano un minimo comun denominatore nel gruppo sociale di appartenenza anche per ragioni territoriali (divisioni, successioni, condominio, patti di famiglia).
L’eterogeneità delle materie sarà la prima difficoltà al tempestivo formarsi di organismi e mediatori in grado di reggere l’impatto.
E’ questa la latitudine logica in cui si colloca la scelta di appoggiarsi anche a esperienze avviate dalla Consob e dalla Banca d’Italia nei settori finanziario e bancario.
Deve sottolinearsi che il meccanismo della condizione di procedibilità lascia peraltro senza soluzione espressa importanti casi come quello del processo multiparte o con domande contrapposte. Non si disciplina, cioè, cosa succederà nelle ipotesi di mediazione svolta solo tra alcuni dei litisconsorti necessari o solo sulla domanda principale e non su quella riconvenzionale.
La normativa potrebbe dunque essere soggetta a opportuni aggiustamenti.
A queste criticità generali se ne affiancano poi altre più di dettaglio, come quella concernente la mancanza di una norma che protegga espressamente chi negozia per la pubblica amministrazione, nei limiti del mandato ricevuto per concludere transazioni, dal rischio di responsabilità erariale, disincentivando incomprensibilmente la mediazione in tutti queste ipotesi. Una norma del genere è presente nel campo del rapporto di pubblico impiego regolato dal d. leg. n. 165 del 2001 (art. 66), ma non è stata riprodotta nel d. leg. n. 28/2010.
Tornando a uno sguardo generale, sembrano importanti le parole scritte dall’ANM su questo progetto, nelle proposte formulate al Ministro della giustizia all’inizio della legislatura.
«Una giurisdizione ispirata al principio di effettività non può prescindere dalla consapevolezza che il processo è una risorsa limitata, e che è quindi necessario far crescere intorno ad esso una fitta rete di strumenti conciliativi, capaci di favorire il superamento e la composizione del conflitti. La prospettiva di recupero della dimensione conciliativa come metodo di risoluzione dei conflitti si iscrive ormai all’interno di un  ampio movimento di pensiero, maturato anche in ambito europeo (ove è recentemente sfociato nella direttiva a comunitaria sulla mediazione in materia civile e commerciale) ed ha trovato espressione anche nei tentativi, avviati da alcuni Osservatori per la giustizia civile, di aprire canali di comunicazione tra processo ed organi di conciliazione. Ciò che occorre, adesso, a livello politico, è far seguire alle parole fatti concreti in termini di mezzi, strutture, strumenti di informazione e formazione professionale, promozione ed incentivi, anche di natura fiscale, idonei ad incoraggiare e far crescere organi di conciliazione presso i vari enti locali e presso gli ordini professionali, regole procedimentali minime per garantire l’imparzialità degli organi ed il contraddittorio, possibili ricadute quanto a disciplina delle spese nel successivo, eventuale giudizio di merito».
Si resta ora in attesa del decreto ministeriale attuativo, a valore regolamentare, che disciplinerà i delicati aspetti dei requisiti professionali e di formazione dei mediatori, nonché quelli di adeguatezza e terzietà degli stessi organismi di mediazione, relativamente ai quali il d. leg. n. 28/2010 opera un rilevante investimento, per ragioni di competenza ed esperienza pregressa, soprattutto sui consigli degli ordini professionali, in specie forensi, e sulle Camere di commercio.

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