Con il titolo Prima dell’apocalisse (Massa, Transeuropa, 2010, pagine 96, euro 8) viene pubblicata un’intervista rilasciata a Robert Duran dall’antropologo francese delle religioni René Girard sul tema sempre attuale dell’11 settembre. Nel corso degli incontri avvenuti a Stanford dove Girard vive, avendovi insegnato per tanti anni, l’intervistatore cita una definizione dell’11 settembre fatta da Jean-Pierre Dupuy, amico e collaboratore di Girard, presente nel libro con il suo saggio “Prevedere l’apocalisse”. Definizione secondo la quale l’11 settembre sarebbe “un vero sacrificio nel senso antropologico del termine”. Per rispondere alla domanda Girard si serve di un testo altrui. Più precisamente di James Allison secondo il quale lo spirito di solidarietà emerso a Ground Zero, sintetizzato nell’affermazione “adesso siamo tutti americani”, richiamerebbe il noto concetto aristotelico di catarsi che, applicato alla tragedia dell’11 settembre, rappresenterebbe uno strano ritorno all’antico.
Si fa notare come il riferimento al senso religioso emerso in quella tragica occasione in seno al secolarismo del nostro tempo sia stato utilizzato da Girard con molta cautela. Una spiegazione di questo fatto può essere dovuta al pericolo che, come molti altri grandi pensatori, Girard corre: venire banalizzato attraverso la semplificazione del suo stesso pensiero. Semplificazione o riduzione ora intenzionale e maliziosa ora innocente se dovuta all’uso di comode formule mnemoniche.
Prendiamo la teoria di Girard sul capro espiatorio. Girard non ha scoperto questa figura quando cominciava a essere dimenticata. L’ha invece riscritta traendola dai testi antichi, mettendo in luce gli aspetti fondativi dell’assassinio sacrificale, fondativi di quella cultura arcaica che avrebbe retto il mondo per proseguire a esercitare i suoi poteri ma sotto mentite spoglie, a causa dei contenuti apocalittici della rivelazione cristiana. Ciò detto, e nonostante lo sforzo di Girard diretto ad affermare il suo punto di vista, agli occhi di molti studiosi il mondo biblico e quel popolo di pastori nomadi e senza patria non hanno retto al confronto con l’eleganza della cultura greca e il suo culto della bellezza o con la potenza della romanità e del suo diritto. Col risultato che nell’era industriale e postindustriale, dell’elettronica, dell’informatica, dei carri armati, dell’artiglieria e dei missili, la figura del capro espiatorio viene evocata quando non c’è e ignorata quando c’è.
Un altro motivo per cui Girard corre il rischio di vedere banalizzato il suo pensiero è quello connesso ai modi diversi da quelli correnti in cui usa i termini “violenza” e “apocalisse”, quest’ultimo specialmente nella versione aggettivata di “apocalittico”, termine tornato di attualità sui media a seguito del terremoto ad Haiti. Quando Girard fa uso della parola violenza non si riferisce tanto alle infinite forme di prepotenza di cui è piena la cronaca, quanto alla “violenza che ferma la violenza”, cioè al sacro e al magico a esso correlato, le due forze a cui si attribuisce il potere di colpire qualcuno in particolare quando stanno tutti per essere travolti, ma (e per questo) vengono momentaneamente salvati. Un concetto religioso, questo, per via della sua capacità di unire i rivali a scapito di qualcuno. La ragione per cui la rivelazione ha assunto il significato di catastrofe sta nel fatto che “oblitera” o meglio depotenzia, certamente al livello teorico e psicologico, le forze che si affidavano ai poteri del sacro. L’aver smascherato l’origine umana, ma creduta divina, dei mezzi di contenimento della violenza, a partire da quelli applicati nelle guerre e nei duelli, rendendoli moralmente inutilizzabili, ha portato la rivelazione a essere sempre più apocalittica. Ma attenzione, perché un mondo privato della risorsa sacrificale sarà sì un mondo più giusto, ma è un mondo sempre più pericoloso in quanto preda della violenza libera.
Fa piacere dunque sentire precisare da Girard stesso che “l’apocalisse non ha una connotazione storica, ma religiosa” per via del significato sempre attuale di una forza in grado di rovesciare i poteri. E colpiscono le precisazioni di Girard sull’anarchia dei cristiani e sul fatto che “lo Stato vede il cristianesimo come forza anarchica”. Vuol dire che a fronte della forza degli Stati – forza pubblica, esercito, armi, giustizia compensativa e retributiva, forze compromesse con la violenza per via di un tacito e misterioso patto – c’è una forza superiore rappresentata dal cristiano che preferisce sacrificare se stesso piuttosto che uccidere. E qui emerge la differenza sostanziale del cristiano rispetto al paganesimo e ad alcuni usi islamici in materia di sacrificio. A differenza del cristiano che ammette solo il sacrificio di se stesso – anticipato in questo dalla prostituta buona, che nell’episodio di Salomone rinuncia al figlio per non vederlo morire, o come espresso nel caso del martire che subisce l’affronto senza rispondere – il pagano è pronto a usare il sacrificio altrui per salvare, ancorché momentaneamente, se stesso. Quanto all’islamico-kamikaze, il suo offrirsi volontariamente alla morte è dovuto al fatto di credere a un mondo preislamico in cui la violenza era ritenuta divina invece che umana.
Una domanda potrebbe essere quella di chiedersi perché Girard si trova costretto a tornare sui suoi concetti con interviste e saggi per precisare quanto ha scritto in modo così chiaro e definitivo nei suoi libri Il capro espiatorio, La violenza e il sacro, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Un motivo possibile è quello che le sue mirabili ricostruzioni sulla nascita e sul fondamento della cultura debbono molto alla sua ipotesi sulla natura mimetica del desiderio. Ipotesi nata dall’esame dei grandi testi della letteratura dove il desiderio umano non compare come qualcosa di autentico e di originale, bensì come qualcosa di copiato. Un affronto al romanticismo e all’illuminismo per cui Girard non è perdonato facilmente (da l’Osservatore Romano).
Si fa notare come il riferimento al senso religioso emerso in quella tragica occasione in seno al secolarismo del nostro tempo sia stato utilizzato da Girard con molta cautela. Una spiegazione di questo fatto può essere dovuta al pericolo che, come molti altri grandi pensatori, Girard corre: venire banalizzato attraverso la semplificazione del suo stesso pensiero. Semplificazione o riduzione ora intenzionale e maliziosa ora innocente se dovuta all’uso di comode formule mnemoniche.
Prendiamo la teoria di Girard sul capro espiatorio. Girard non ha scoperto questa figura quando cominciava a essere dimenticata. L’ha invece riscritta traendola dai testi antichi, mettendo in luce gli aspetti fondativi dell’assassinio sacrificale, fondativi di quella cultura arcaica che avrebbe retto il mondo per proseguire a esercitare i suoi poteri ma sotto mentite spoglie, a causa dei contenuti apocalittici della rivelazione cristiana. Ciò detto, e nonostante lo sforzo di Girard diretto ad affermare il suo punto di vista, agli occhi di molti studiosi il mondo biblico e quel popolo di pastori nomadi e senza patria non hanno retto al confronto con l’eleganza della cultura greca e il suo culto della bellezza o con la potenza della romanità e del suo diritto. Col risultato che nell’era industriale e postindustriale, dell’elettronica, dell’informatica, dei carri armati, dell’artiglieria e dei missili, la figura del capro espiatorio viene evocata quando non c’è e ignorata quando c’è.
Un altro motivo per cui Girard corre il rischio di vedere banalizzato il suo pensiero è quello connesso ai modi diversi da quelli correnti in cui usa i termini “violenza” e “apocalisse”, quest’ultimo specialmente nella versione aggettivata di “apocalittico”, termine tornato di attualità sui media a seguito del terremoto ad Haiti. Quando Girard fa uso della parola violenza non si riferisce tanto alle infinite forme di prepotenza di cui è piena la cronaca, quanto alla “violenza che ferma la violenza”, cioè al sacro e al magico a esso correlato, le due forze a cui si attribuisce il potere di colpire qualcuno in particolare quando stanno tutti per essere travolti, ma (e per questo) vengono momentaneamente salvati. Un concetto religioso, questo, per via della sua capacità di unire i rivali a scapito di qualcuno. La ragione per cui la rivelazione ha assunto il significato di catastrofe sta nel fatto che “oblitera” o meglio depotenzia, certamente al livello teorico e psicologico, le forze che si affidavano ai poteri del sacro. L’aver smascherato l’origine umana, ma creduta divina, dei mezzi di contenimento della violenza, a partire da quelli applicati nelle guerre e nei duelli, rendendoli moralmente inutilizzabili, ha portato la rivelazione a essere sempre più apocalittica. Ma attenzione, perché un mondo privato della risorsa sacrificale sarà sì un mondo più giusto, ma è un mondo sempre più pericoloso in quanto preda della violenza libera.
Fa piacere dunque sentire precisare da Girard stesso che “l’apocalisse non ha una connotazione storica, ma religiosa” per via del significato sempre attuale di una forza in grado di rovesciare i poteri. E colpiscono le precisazioni di Girard sull’anarchia dei cristiani e sul fatto che “lo Stato vede il cristianesimo come forza anarchica”. Vuol dire che a fronte della forza degli Stati – forza pubblica, esercito, armi, giustizia compensativa e retributiva, forze compromesse con la violenza per via di un tacito e misterioso patto – c’è una forza superiore rappresentata dal cristiano che preferisce sacrificare se stesso piuttosto che uccidere. E qui emerge la differenza sostanziale del cristiano rispetto al paganesimo e ad alcuni usi islamici in materia di sacrificio. A differenza del cristiano che ammette solo il sacrificio di se stesso – anticipato in questo dalla prostituta buona, che nell’episodio di Salomone rinuncia al figlio per non vederlo morire, o come espresso nel caso del martire che subisce l’affronto senza rispondere – il pagano è pronto a usare il sacrificio altrui per salvare, ancorché momentaneamente, se stesso. Quanto all’islamico-kamikaze, il suo offrirsi volontariamente alla morte è dovuto al fatto di credere a un mondo preislamico in cui la violenza era ritenuta divina invece che umana.
Una domanda potrebbe essere quella di chiedersi perché Girard si trova costretto a tornare sui suoi concetti con interviste e saggi per precisare quanto ha scritto in modo così chiaro e definitivo nei suoi libri Il capro espiatorio, La violenza e il sacro, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Un motivo possibile è quello che le sue mirabili ricostruzioni sulla nascita e sul fondamento della cultura debbono molto alla sua ipotesi sulla natura mimetica del desiderio. Ipotesi nata dall’esame dei grandi testi della letteratura dove il desiderio umano non compare come qualcosa di autentico e di originale, bensì come qualcosa di copiato. Un affronto al romanticismo e all’illuminismo per cui Girard non è perdonato facilmente (da l’Osservatore Romano).