Politica

De Magistris e il ruolo corretto del PM

La sentenza del GUP di Catanzaro Mellace che ha di fatto demolito l’inchiesta Why Not, iniziata  con clamore mediatico dall’ex PM De Magistris, riporta alla ribalta l’annosa questione del rapporto, non sempre, armonioso fra pubblica accusa e formazione della prova nel processo penale.
Prescindendo dal caso specifico (riguardo al quale De Magistris, contestando la decisione, ha affermato che l’ex collega Mellace non poteva serenamente affrontare quel processo), si può tuttavia fare qualche riflessione sulla delicatezza del ruolo del PM, e su come quel ruolo possa, se male interpretato, produrre effetti infausti sugli sviluppi del processo: effetti che si enfatizzano a dismisura se l’inchiesta assume rilievo mediatico.
Il pubblico ministero non svolge solo un ruolo di impulso del procedimento penale;  né questo ruolo è finalizzato alle sole sollecitazioni cautelari o all’elaborazione di una tesi accusatoria suggestiva; ma esso esige che l’impianto dell’indagine si fondi sulla raccolta di elementi destinati a resistere in prospettiva alla verifica probatoria, in particolare durante la fase dibattimentale, quando le prove raccolte dal PM devono subire, nel contraddittorio delle parti, il vaglio critico che dovrebbe portare a una decisione di condanna.
Una visione distorta di questi “paletti” ha spesso portato, anche in vicende di rilevanza mediatica, all’avvio clamoroso di indagini che poi, una volta giunte al “dunque” (ossia all’esame del giudice), sono di fatto franate. Con una serie di effetti perniciosi: quello di alimentare inizialmente nell’opinione pubblica illusorie speranze di moralizzazione, destinate a trasformarsi in indignazione o addirittura in sospetti di collusione verso i giudici che, nel tempo, ridimensionano gli elementi probatori su cui quelle indagini si reggono; quello di dissipare o trascurare, con una malaccorta gestione dell’inchiesta, elementi che potrebbero dare sostegno probatorio alle acquisizioni investigative, così pregiudicando gli esiti delle stesse e legittimando i soggetti coinvolti a recriminare contro la mala giustizia, pur quando la realtà sottostante sia effettivamente meritevole di approfondimento; quello, su scala più generale, di creare danno sul piano mediatico e anche politico all’intera categoria dei magistrati, dando voce a chi spaccia per vera l’equazione pubblici ministeri uguale persecutori malati di protagonismo.
L’innamoramento di tesi accusatorie, non sostenuto da un’adeguata “visione del gioco” processuale, contraddice il pilastro su cui si regge la permanenza dei magistrati inquirenti assieme a quelli giudicanti nello stesso ordine giudiziario, ossia la “cultura della prova”. E purtroppo vi è chi ne ricava argomenti per sostenere la necessità della separazione delle carriere: laddove in realtà quest’ultima allontanerebbe ulteriormente i PM proprio dalla prospettiva della formazione della prova nella dialettica processuale, e finirebbe per dimostrarsi un rimedio peggiore del male.
 
* Magistrato, vice segretario nazionale di Magistratura indipendente
 

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