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Sistema pensionistico. Da anomalia a leva di sviluppo

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Scritto da vocealta

pensioni-donneI numeri e la logica, mai come in questo caso, sono utili. C’è poco da girarci intorno, la storia è semplice.

Quarant’anni fa, ogni 100 bambini (fra 0 e 14 anni) c’erano 46 anziani (di età superiore a 65 anni). Nel 2009, il numero si è triplicato: gli over 65 sono diventati 144. Un dato che è destinato ad aumentare dal momento che a crescere in questi anni è stata anche l’aspettativa di vita: circa 9 anni. Questa situazione ha portato al raddoppio della spesa pensionistica: il numero delle pensioni in pagamento è salito del 69%, ovvero da 14 a 24 milioni. Se non si interviene quanto prima, insomma, la nostra incidenza di spesa per le pensioni rischia di diventare la più alta tra i 27 Paesi dell’Unione Europea.

Non ha mancato di sottolinearlo l’Inps chiedendo a chiare lettere di “attuare riforme tese in futuro al contenimento degli importi delle pensioni e all’innalzamento dell’età pensionabile […]”. Nello stesso modo, si è espressa la Commissione europea, nella recente comunicazione al Parlamento Europeo, che ha evidenziato la necessità di riforme strutturali tese a: innalzare l’età pensionabile e collegarla alla speranza di vita; ridurre in via prioritaria i piani di prepensionamento e utilizzare incentivi mirati per promuovere l’occupazione dei lavoratori anziani e l’apprendimento permanente; evitare di adottare misure riguardanti i sistemi pensionistici che compromettano la sostenibilità a lungo termine e l’adeguatezza delle finanze pubbliche.

Per tutta risposta, il nostro Paese finge di non capire che quella previdenziale è una delle poche leve per risanare la finanza pubblica, al punto che diventa motivo di “agitazione” già solo anticipare il percorso di equiparazione dell’età per la pensione di anzianità tra uomini e donne, una decisione già presa l’anno scorso per coloro che lavorano nel settore pubblico, finalmente estesa anche al privato. Una decisione, merita sottolinearlo, ovvia quanto dovuta, considerato il momento di crisi globale e il panorama europeo in questo senso.

Attualmente i nostri livelli di età pensionabile sono un’anomalia tutta italiana. Nei principali Paesi dell’Unione, infatti, si attesta almeno sui 65 anni e nella stragrande maggioranza dei casi non esiste alcuna differenza tra uomini e donne: in Germania, Spagna, Svezia, Danimarca, Regno Unito, è stato già intrapreso il percorso dell’innalzamento a 67 o 68 anni.

Cosa avrebbero dunque le donne italiane di diverso dalle loro “colleghe di genere” europee? Il welfare. La consapevolezza della solitudine che le madri e le mogli italiane incontrano nelle loro vite a causa di un welfare che continua ad individuarle come vero pilastro della società italiana porta a ritenere una scelta priva di senso che le donne vadano in pensione alla stessa età degli uomini. Le donne vengono così considerate meritevoli di un riposo anticipato rispetto ai mariti, che si quantificherebbe in almeno 2 anni di anticipo per ogni figlio.

Ma, questo è il punto, le altre signore europee forse non fanno figli, non hanno la responsabilità degli anziani e non mettono su famiglia? Certamente sì, ma non si può d’altro canto dimenticare che possono avvalersi di numerose forme di sostegno: da condizioni di maternità più rassicuranti alla paternità, dagli asili nido aziendali ad una efficiente assistenza per gli anziani.

Si tratta evidentemente di un circolo vizioso, che ha bisogno di un capitale di investimento in politiche sociali che in questo momento l’Italia non possiede per cambiare passo. Quale occasione migliore dei ricavi che produrrà l’innalzamento dell’età pensionabile per pensare ad un “tesoretto” da utilizzare, per esempio, come sostegno per la maternità o, più in generale, da impiegare per il sostegno alle misure di conciliazione tra i tempi della professione e le esigenze della famiglia?

I primi calcoli parlano di un risparmio di quasi 4 miliardi, solamente nell’anno che vedrà andare a regime la misura. Sono davvero così pochi per rendere realtà il telelavoro oppure per concedere più flessibilità oraria per entrambi i genitori lavoratori nei primi tre anni di vita del bambino e il part-time per le madri nei primi cinque?

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