Isole di rifiuti si muovono negli oceani e batteri, molluschi e alghe le stanno colonizzando. L’esperta di ambiente marino: «Questa capacità di adattamento di piante e animali è affascinante, ma è causata da processi innaturali e diffonde le specie aliene».
Grandi agglomerati di plastica e rifiuti galleggianti formando le cosiddette “isole di plastica” degli oceani, ma la vita non si ferma: i primi a conquistare le nuove superfici sono stati i batteri, capaci di adattarsi alle condizioni più estreme. Poi, però, sono arrivati organismi più complessi, come alghe e molluschi. Ora sulle isole di plastica nascono nuove comunità viventi e prendono forma nuovi habitat.
Dallo studio di Smithsonian Environmental Research Center, nel Maryland, pubblicato su Nature Communications, è emerso che: «I problemi causati dalla plastica dispersa in mare vanno ben oltre la semplice ingestione da parte della fauna e la possibilità che gli animali rimangano intrappolati dalle reti», spiega Linsey Haram, prima firmataria dell’articolo. «Si stanno anche creando le condizioni perché alcune specie costiere possano espandersi notevolmente, oltre ciò che in precedenza pensavamo fosse possibile».
Il team di ricercatori americani hanno stimato che nel vortice subtropicale del Pacifico settentrionale, più comunemente noto come Great Pacific Garbage Patch, si sia formato un agglomerato di 79 tonnellate di plastica che si estende in una regione di circa 1,5 milioni di chilometri quadrati. Gran parte dell’inquinamento è costituito da microplastiche, troppo piccole per essere viste ad occhio nudo, sono soprattutto i detriti galleggianti, come reti, boe e bottiglie che vengono trascinati dalle correnti marine, portando con sé organismi viventi dai loro habitat costieri. Molte specie animali e vegetali tipiche della costa, infatti, stanno colonizzando la spazzatura che galleggia in queste zone. Linsey Haram, insieme ai colleghi ricercatori, analizzando i campioni raccolti ha rilevato la presenza di anemoni, idroidi e anfipodi, simili a gamberetti, che non solo sono sopravvissuti in mare aperto, ma hanno prosperato sulla plastica marina.
«Il fenomeno di esseri viventi che si aggrappano a qualsiasi oggetto galleggiante era noto», ha commentato Francesca Garaventa, ricercatrice presso l’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del Cnr. «Tutto quel che sta a lungo in mare viene ricoperto da batteri, vegetali e animali. Basti pensare agli scafi delle imbarcazioni o alle infrastrutture costruite in acqua». Gli scienziati chiamano questo fenomeno biofouling, traducibile con bio-incrostazione. «Succede anche se in mare c’è la plastica, ovviamente. Ma la vera novità è che per la prima volta gli esseri viventi hanno a disposizione una così ampia superficie di materiali galleggianti e in movimento», ha sottolineato Garaventa. «Se già i canali artificiali come quello di Suez e il commercio globale, con le acque di zavorra caricate in un mare e rilasciate in un altro, avevano prodotto una proliferazione di specie aliene, ora con le isole di plastica questo processo non potrà che subire una ulteriore accelerazione».
Evidenza delle grandi capacità di viaggio degli oggetti di plastica in mare e della resilienza della vita su tali oggetti alla deriva, sono le 300 specie che, dopo lo tsunami giapponese del 2011, avevano attraversato il Pacifico viaggiando sui detriti provocati dal maremoto.
«È certamente interessante analizzare lo straordinario adattamento della vita alle condizioni più diverse, ma in questa capacità di piante e animali di colonizzare persino la plastica non riesco a vederci una buona notizia», conclude Garaventa. «Purtroppo, c’è solo il rischio che un processo naturale sia alterato da un materiale che con la natura non ha niente a che fare».