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Hikikomori, il problema è la pressione sociale

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Chi sono gli hikikomori? Sul blog "hikikomoriitalia.it" si legge che il termine giapponese «significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno». Il blog è stato fondato nel 2015 da Marco Crepaldi, psicologo sociale, presidente e fondatore dell'Associazione Hikikomori Italia, convinto che il fenomeno dei ritirati sociali riguardi tutti e non solo i giapponesi. In occasione del seminario “Hikikomori. Il ritiro sociale degli adolescenti e la scuola come risorsa” al liceo Azzarita di Roma, racconta che l’idea di uno spazio comune in cui condividere la propria esperienza è stata graduale: «Prima mi hanno contattato i ragazzi, poi la stampa, le Tv e infine centinaia di genitori», spiega.

Dal blog è nato un gruppo Facebook e poi un'associazione di genitori che conta attualmente 1.000 genitori provenienti da tutta Italia, accomunati dal fatto di avere figli auto-reclusi in casa.

«A Roma l'associazione conta 70 famiglie – aggiunge lo psicologo sociale – Le citta' con più genitori associati sono Roma, Torino e Milano”. Per affrontare il problema è necessario partire dai genitori e cercare di far cambiare loro il punto di vista per favorire un cambiamento nazionale e sociale. «Vogliamo creare una rete che consenta di generare un ambiente propenso ad aiutare il figlio a tornare nella società», poiché la cultura che incide sul ritiro degli hikikomori. In altre parole, c’è una volontà da parte di giovanissimi tra i 14 e i 25 anni «di scappare da questa competitività – chiarisce Crepaldi – fuggire dalla pressione di dover raggiungere uno standard per riuscire. La pressione di realizzazione sociale è la vera causa che crea gli hikikomori ovunque nel mondo», sottolinea lo psicologo sociale.

L’isolamenti degli hikikomori inizia alle medie per poi concretizzarsi nei primi anni delle superiori. La maggior parte sono ragazzi, ma il numero delle ragazze è in forte crescita. Si deve quindi cercare di intervenire prima che si verifichi l’isolamento perché, come sottolinea Crepaldi «poi è sempre più difficile convincere il ragazzo ad abbandonare la situazione». In Italia le stime parlano di 100mila casi e per gli psicologi si tratta di un disagio sociale che può portare gradualmente alla patologia. Sono tre le fasi del ritiro: prima i giovani si allontanano dagli ambienti sociali, poi lasciano la scuola e poi si isolano anche dal Web. L'associazione lavora allora sulle buone prassi per evitare di «mettere ulteriore pressione su questi ragazzi. È necessario abbassare le pressioni sociali e quindi lavoriamo molto con i genitori sulla prevenzione, per riuscire a riconoscere i segnali premonitori ed evitare che l'isolamento diventi cronico. Portiamo questo messaggio nelle scuole», ha concluso Crepaldi.

Presente al convegno anche Elena Carolei, la presidente dell'associazione Hikikomori Italia Genitori Onlus e mamma di un ragazzo che oggi ha superato la fase di isolamento volontario. Quello che serve per affrontare la situazione è, dunque, «educare i nostri figli all’autostima», sottolinea.

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