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Tutte le volte che c’è voluto Silvio

Il buongiorno si  vide già nelle prime ore del mattino. All’alba del nuovo inizio della politica italiana.
Agli esordi di un seconda repubblica apparentemente marchiata da una “gioiosa macchina di guerra”, scampata da Tangentopoli e dal crollo del muro.
Un dominio della sinistra venuta dal Pci spazzato via alla prima buona occasione.  Eppure in quel 1994 non dovevano esserci avversari. Doveva tutto filare liscio. Ma Silvio Berlusconi, contro il parere dei suoi più stretti collaboratori e familiari, ebbe il barbaro coraggio d’inventarsi il centrodestra. Di sdoganare la destra di lotta, divenuta di governo, e accoppiarla al movimento della Lega Nord e dei neocentristi.
Decisivo, il Cavaliere, lo fu anche nel ritorno al potere dopo la fatidica traversata nel deserto. Capace di ricompattare una coalizione che sembrava morta e sepolta, guidò prima l’assalto a D’Alema e alle regioni e poi quello, nel 2001, a Francesco Rutelli. Sul finire della seconda legislatura, un Silvio troppo “istituzionale” e una maggioranza lacerata da guerre intestine e dalle ambizioni e dai distinguo dei vari Follini e Casini, dovettero capitolare in occasione delle elezioni regionali del 2005. Berlusconi decise di restare sullo sfondo e il centrodestra ne pagò le conseguenze.
L’arrivo di Prodi a Palazzo Chigi, con una larghissima maggioranza, venne data da tutti (soprattutto i grandi giornali d’Italia) per scontata. Ma il premier non si fece certo mortificare da sondaggi impietosi e dal dilagante pessimismo dei suoi alleati, indaffarati a pensare alla successione e al dopo e poco interessati alla sfida col Professore. Sappiamo bene come andò a finire: Il centrosinistra vinse al fotofinish, per una manciata di voti.
A fare la differenza ancora il Cavaliere, che in pratica sfiorò l’impresa. Per Romano Prodi, invece, fu soltanto l’inizio della fine. Una vittoria amara, che evidenziò ancora di più tutti i guai di una sinistra troppo eterogenea per essere vera. Per due anni a salvare il premier bolognese ci pensarono i senatori a vita. Silvio Berlusconi, ancora lui, credeva però nell’incredibile colpaccio. Fini no, Casini galleggiava nel suo fantomatico terzo polo. Ma i fatti, per l’ennesima volta, diedero ragione al leader di Forza Italia e alla sua tenacia. Vincere, nel 2008, fu quindi un gioco da ragazzi.
E oggi? La storia, quasi monotona, si ripete. Stesso copione e stessi attori, fatta esclusione per l’affascinante guida dell’Udc. In ballo c’è ancora la successione.  A turbare le notti dei delfini c’è ancora il dopo. Il presidente del Consiglio non può allora permettersi di tirare il fiato e di svolgere il suo lavoro ordinario. Con quel ruspante ed efficace “ghe pensi mi” è tornato nella mischia per rimettere ordine nelle cose. In fondo è il popolo stesso che lo vuole, che come lui pensa alle cose concrete e se ne infischia della retorica del futuro. E pensare che con quella ci hanno persino fatto una fondazione, con annessi magazine, polemiche, sentenze e intellettuali.
Baglioni cantava: la vita è adesso. Ma è troppo popolare per essere preso sul serio da chi vive di ribaltoni e con la cantilena del “domani migliore” avvelena il presente (il Predellino).
 

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