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Socialismo, la memoria negata

Ma come è possibile che il trionfo del lessico del socialismo riformista in Italia abbia coinciso con la morte politica dei socialisti? È per via di questo paradosso che sulla storia della cultura riformista italiana ristagna ancora un’atmosfera da damnatio memoriae.
Grava su di essa il silenzio intimidatorio di un interdetto storiografico. La sua memoria è stata cancellata, la sua storia espunta dalle vicende politiche e culturali della Prima Repubblica. Quando, nella legislatura nata nel 1996, gli ex comunisti della coalizione prodiana andarono al governo, si parlò di una prima volta della «sinistra a Palazzo Chigi»: come se il centrosinistra con i socialisti nella «stanza dei bottoni» non fosse mai esistito, come se a Palazzo Chigi non fosse già entrato il socialista Bettino Craxi. Vittorio Foa, racconta Bruno Pellegrino nel suo “L’eresia riformista”  in uscita presso Guerini e Associati (pagine 224, € 19,50), si stupì molto con Paul Ginsborg che gli aveva dato da leggere i primi capitoli del dattiloscritto della sua Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi: «C’era un vuoto: non si parlava dei socialisti. E Paul: “Non ne parlano perché non c’erano”». La storia del socialismo italiano come un «guscio vuoto». Ecco il frutto della strabiliante amnesia collettiva di cui ha sofferto, e continua a soffrire, la nostra Seconda Repubblica.
Il libro di Pellegrino ricostruisce con puntiglio le tessere del mosaico riformista annegate nell’oblio. Non il riformismo antico di Filippo Turati e, di Anna Kuliscioff, che pure è ricordato in queste pagine come la sorgente prima, la matrice originaria perduta e rinnegata negli anni del frontismo e della subalternità culturale nei confronti dei comunisti. Ma la rinascita di un orgoglio riformista che politicamente prende fiato e forma con l’ascesa di Craxi ai vertici del Psi, Midas 1976. Negli anni in cui il Pci mieteva il massimo dei suoi consensi elettorali e stuoli di intellettuali sentivano il richiamo irresistibile dell’egemonia culturale esercitata dalle Botteghe Oscure, la cultura socialista ritrovava se stessa e portava un nuovo vento di orgoglio riformista nel cruento «duello a sinistra» descritto da due protagonisti del nuovo corso culturale come Giuliano Amato e Luciano Cafagna. Nascevano associazioni, centri culturali; una rivista come «Mondoperaio» (allora diretta dal giolittiano Federico Coen) prese un posto di primo piano nella discussione ideologica; il Club Turati rendeva ancora più smagliante il suo blasone di voce di un socialismo milanese che aveva nel riformismo la sua bandiera: le glorie antiche della Società Umanitaria, la fierezza del municipalismo, la solidità del pragmatismo meneghino. Nasceranno su quel tronco espressioni vivaci di un rinnovato spirito riformista: dal Club dei club, di cui Pellegrino è stato promotore e forza motrice, all’associazione Politeia. Impossibile menzionare tutti i nomi coinvolti in questa nuova primavera riformista restituita nelle pagine di Pellegrino. Ma non un comparto della cultura fu risparmiato da questa ondata di riflessioni e innovazione: dalle nuove professioni all’informazione, dal cinema all’arte, dall’architettura alle scienze giuridiche, dalla storiografia alla politologia. Era un nuovo lessico che si imponeva nella cultura, come chiusura e ripudio dei plumbei anni Settanta. Quella fioritura conobbe però una fine traumatica con l’inabissarsi dell’esperienza politica dei socialisti italiani, a cominciare da quella, anche personale, di Bettino Craxi. Ma questo inaspettato tramonto ne ha messo in luce, necessariamente, anche la fragilità e la debolezza. Tanto che la storia raccontata da Pellegrino finisce per somigliare in qualche passaggio al lavoro certosino dell’archeologo che si china trepidante sui reperti ormai fossilizzati di una civiltà scomparsa. E infatti proprio quando, con la caduta del muro di Berlino, la guerra culturale riformista sembra prendere il sopravvento sulla cultura di derivazione comunista, sempre più esausta, ossificata, senza più nessuna fiducia in se stessa, le convulse vicende politico-giudiziarie segnano un paradosso: la scomparsa dei riformisti e la contestuale vittoria nella sinistra di chi, ingiuriato il riformismo fino a un minuto prima, ha cominciato a farsene all’improvviso interprete e vessillifero (insincero). Al di là delle accuse, dei rimpianti e dei rancori, sarebbe il caso di cominciare a spiegare questo paradosso.
Bruno Pellegrino traccia le linee, i volti e le tendenze di una storia vivace, interessante e gloriosa. Per capire perché questa storia non solo abbia subito una drammatica interruzione, ma addirittura sia stata fagocitata, depotenziandola, dagli ex nemici, si rende necessaria una spiegazione. Oppure, domanda complementare, ci sarebbe da chiedersi perché la cultura di governo, l’attenzione alla modernità, il rifiuto dei pregiudizi ideologici, il gradualismo, il garantismo, il rifiuto dell’autoritarismo, insomma tutto il meglio del riformismo socialista, sia stato così dimenticato nella nuova stagione politica: come dimostra la desolante parabola dei partiti che pure hanno voluto esibire le insegne del riformismo senza però riconoscersi fino in fondo nella sua cultura. Domande che presuppongono la riscoperta di un filone culturale che ha conosciuto momenti migliori e di cui il libro di Pellegrino è una prima, per fortuna molto dettagliata, ricognizione. Una storia da studiare. Perché il socialismo riformista, malgrado le perplessità di Paul Ginsborg, è esistito davvero (Corriere della Sera).

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