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Riflessioni su Auschwitz

27 gennaio 1945: l’Armata Rossa approda a Oświęcim e rinviene la triste realtà dei campi di concentramento. È una data importante, il 27. Viene, infatti, manomesso il comando di Auschwitz. Vengono salvati i pochi superstiti. Simbolicamente, è la ritirata dei tedeschi e l’epilogo del massacro.
Nel 2000 il nostro Parlamento ha istituito con un atto legislativo il Giorno della Memoria. L’art. 1 di tale legge recita: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.”
Ma non basta solo una presa di coscienza a parole. Serve qualcosa di più. Bisogna toccare con mano, percepire in modo diretto quelle che sono state le vere manifestazioni di un così tragico evento. Solo così si potrà essere effettivamente portatori di un’esperienza sempre viva e nitida in cuor proprio, per renderne utile anche la comunicabilità agli altri. Ed infatti, noi ragazzi del movimento giovanile Romano di Forza Italia abbiamo cercato proprio questo: un contatto immediato con i numerosi ricordi che si levano da ogni muro dei luoghi della deportazione degli ebrei. Così Alessandro Colorio, consigliere municipale e leader dei giovani azzurri romani, ha pensato di organizzare un viaggio in Polonia con meta ultima proprio i campi di Auschwitz e Birkenau.
La cosa strana e assolutamente sorprendente, quando si entra nei campi, è la totale assenza di rumori esterni. Sembra quasi che le imponenti e squadrate casupole, tutte in fila con disciplina, siano rinchiuse in una bolla insonorizzata, che impedisce a qualsiasi suono di entrare al suo interno. Non un rumore. Non una vibrazione in lontananza. Ogni cosa sembra assopita nel suo funereo contegno e persino il vento si vergogna a soffiare, latrando in qualche canto meno riparato la triste eco dei morti che ivi riposano.
Nella giornata della memoria erano presenti molti gruppi di italiani. Solo la nostra delegazione contava quaranta persone. Abbiamo deposto una corona di fiori, umile testimonianza del nostro passaggio. Poi abbiamo pregato, in silenzio, di fronte al muro del pianto. Gli sguardi piantati verso il basso. Il ricordo delle migliaia di eroi che hanno varcato il cancello, che hanno letto “arbeit macht frei”, che hanno sperato e che poi sono stati fucilati, proprio lì, davanti a quel muro dove noi stavamo riuniti a meditare, o che sono morti di inedia nelle celle che stavano alla nostra destra, senza alcuna pietà.
È credibile l’avvertimento che ti fanno coloro che ci sono già stati: quando entri e vedi coi tuoi occhi quello che fino ad allora avevi solo visto e sentito dai film o dai professori di scuola, solo allora capisci che è stato tutto tremendamente reale, non una finzione, non una messa in scena, ma reale. Tanto reale che quando ti avvicini alle capanne di legno di Birkenau, nelle quali vivevano più di cinquecento persone in ognuna, accatastati come fasci di rami da ardere, senza il minimo segno di umanità, senti ancora l’odore di quella carneficina. Percepisci nei tuoi polmoni la guerra, il legno marcio, la cenere, il passato stantio, la tristezza, il dolore incancrenito in quelle pietre, il pianto. E allora non riesci più a proferire parola con alcuno.
 Passiamo nuovamente da un sentiero ricoperto di fanghiglia e ghiaccio. Poi i binari. Quelle linee parallele di ferro arrugginito che si incontrano in lontananza. Quella rotta che conduceva a un luogo di non ritorno; una banchina, dove si faceva la selezione per destinare i non abili al lavoro alle tristemente famose “docce”. Ignari, i prescelti sarebbero poi morti, soffocati sotto l’effetto del Zyclon B. La visita ai campi si conclude. Ognuno ha vissuto in modo diverso quest’esperienza. Ma tutti hanno tentato di immedesimarsi nell’esistenza di quella povera gente, fatta di mille soprusi quotidiani, fatta di pensieri e di storie raccontate per aggrapparsi alla vita, fatta di speranze e di delusioni, fatta di numeri identificativi, di capelli rasati, di acqua gelata la mattina, di piedi scalzi.
La visita è malinconica, sì. Ma apre le porte a mille riflessioni sul come e perché possano essere state perpetrate simili violazioni dei diritti, senza dimenticare che fatti del genere avvengono ancora oggi in numerosi angoli del mondo dimenticati dai media, mentre noi viviamo nel nostro apparente e appagante benessere sociale.

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