Ha inizio oggi il processo che accerterà i colpevoli della morte del giornalista dissidente Jamal Kashoggi. Il tribunale dell’Arabia Saudita ha infatti portato alla sbarra degli imputati ben undici persone, che sarebbero coinvolte nell’assassinio avvenuto nel consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre del 2018. L’accusa chiede la condanna a morte per cinque degli imputati, ma l’identità di questi non è stata rivelata. I media riferiscono anche che le autorità saudite avrebbero chiesto formalmente alla Turchia per ben due volte di fornire prove relative al delitto, ma la richiesta sarebbe rimasta lettera morta.
Stando a quanto riferiscono fonti giornalistiche, tra gli imputati si troverebbe il numero due dei servizi segreti sauditi, il generale Ahmed al-Assiri, mentre fa discutere la rimozione dall’incarico di uno tra i più stretti collaboratori del principe, Saud al Qahtani, che si occupava della comunicazione sui social media. Secondo l’accusa tuttavia il principe Mohammed Bin Salman sarebbe stato tenuto all’oscuro della vicenda delittuosa, e come tale non imputabile. Le autorità infatti riferiscono di aver inviato uomini in Turchia per esortare Kashoggi a tornare in patria: una missione finita male perché dopo la ribellione del giornalista, a questo sarebbe stata somministrata un’iniezione calmante che lo ha poi ucciso. Almeno questa è la versione ufficiale rilasciata dalle autorità, che non ha convinto né l’intelligence statunitense né la procura, entrambi più propensi a credere ad un assassinio premeditato. Dello stesso avviso il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, secondo il quale l’ordine sarebbe arrivato «dai massimi vertici del governo saudita», ovvero dal principe.
Il reporter Kashoggi aveva 60 anni e dal 2017 viveva negli Stati Uniti, dove si era rifugiato per motivi politici: aveva infatti espresso dissenso nei confronti dell’operato del principe e della sua decisione di intervenire militarmente nello Yemen. Lavorava per il Washington Post e scriveva spesso delle intimidazioni e degli attacchi ricevuti dai dissidenti. Non si ebbero più notizie di lui dal 2 ottobre 2018, quando si recò nel consolato saudita di Istanbul, per richiedere alcuni documenti utili al matrimonio con la fidanzata turca Hatice Cengiz. Solo 18 giorni dopo arrivò l’ammissione da parte della autorità saudite: Kashoggi era stato ucciso nella sede diplomatica.
L’intelligence turca ha delineato uno scenario agghiacciante: il cadavere di Kashoggi sarebbe stato fatto a pezzi in diretta Skype su indicazioni di quel Saud al Qahtani che è stato recentemente rimosso dal suo incarico strettamente confidenziale con il principe. Immobilizzato al suo ingresso nell’ambasciata, sarebbe stato condotto in una stanza dove lo attendeva un interrogatorio in videochiamata con al Qanthani: una situazione che è degenerata in seguito alla ribellione del giornalista nei confronti dell’interrogatore, il quale avrebbe quindi chiesto la testa di Kashoggi. Quindi l’omicidio per strangolamento e poi lo smembramento con una sega elettrica, compiuto sotto la direzione scientifica dell’anatomopatologo del ministero degli Interni saudita, il dottor Salah al-Tubaigy. Si pensa che il cadavere sia poi stato portato via all’interno di alcune borse, ma di questo non c’è alcuna traccia.