Politica

L’eredità di Cossiga e il centro destra senza memoria

Cossiga
Scritto da vocealta

di Andrea Camaiora *

CossigaÈ dal 17 agosto 2010 che abbiamo perso Francesco Cossiga ed è stupefacente quanto il centro destra si impegni a dimenticarlo, perseguendo questa damnatio memoriae delle figure istituzionali, politiche e culturali al cui ricordo, invece, dovrebbe rifarsi, anzitutto per preservare un’identità e una bussola che ormai da tempo sembrano essere irrimediabilmente smarrite.

In un Paese provinciale come il nostro, mai diventato nazione, Cossiga primeggiava per conoscenza delle dinamiche internazionali e per l’autorevolezza che all’estero gli era riconosciuta. 

A quattro anni dalla sua scomparsa potremmo iniziare a celebrare almeno alcuni dei suoi meriti, almeno dei più recenti. Anzitutto, il profetico appello al Parlamento con il messaggio alle Camere del 1991, in cui l’allora Capo dello Stato invoca riforme istituzionali. Sono trascorsi 23 anni.

Quindi, negli anni instabili della maggioranza prodiana condizionata da Rifondazione comunista, l’ancoraggio dell’Italia all’Occidente, culminato nella nostra piena adesione all’intervento militare Nato nell’ex Jugoslavia, determinato dal governo dell’ex comunista Massimo D’Alema. Da lì inizia la maturazione del centro sinistra che, per quanto criticabile, porta al Pd e infine a Renzi. E sempre dalla sfida aperta a Berlusconi, per la costruzione di rassemblement moderato, origina l’evoluzione di Forza Italia, la creazione di una credibile forma partito e l’adesione al Partito popolare europeo che apre per dieci anni il consenso degli ex elettori del Pentapartito al movimento di Berlusconi.

Come ricorda il suo amico Piero Testoni, Cossiga era un uomo capace, da un lato, di parlare il linguaggio della verità e, dall’altro, di perseguire una strategia politica attraverso raffinate dissimulazioni. Un cacciatore di elefanti circondato da cercatori di farfalle. Un abile protagonista politico che conosceva le regole scritte e non scritte che governano questo mondo. Da qui la successione, talvolta imprevedibile, di dichiarazioni al vetriolo e silenzi, espressioni moderate e vere e proprie intemerate. Perché la politica non è solo azione, ma anche inazione. 

Ha insegnato lungamente (e spesso inutilmente), sull’esempio di Thomas More, la sottile ma invalicabile ‎separazione tra potere e coscienza che dovrebbe caratterizzare l’impegno dei cattolici in politica, fedeli al Re (e dunque allo Stato), ma prima di tutto fedeli a Dio e alla propria coscienza di credenti.  

Ci manca il suo parlar ‎chiaro. Quando ha rivendicato per i componenti di Gladio lo status di “patrioti” votati ad assicurare la nostra libertà contro possibili invasioni di truppe del patto di Varsavia e contro tentativi armati di presa del potere da parte degli ex partigiani comunisti ancora armati fino ai denti. 

Quando da Capo dello Stato negò a De Mita la staffetta, perché Craxi al governo stava lavorando bene.

Quando, negli ultimi anni, appellò “Tonno” l’allora segretario dell’Anm Palamara (“Tonno Palamara” in luogo di “Tonno Palmera”) impartendogli in diretta tv una formidabile lezione di diritto costituzionale e sanzionando un certo, militante, modo di ‎intendere il ruolo di magistrati. 

‎Quando, nel caso Abu Omar, ha preso le parti dei servizi segreti americani, impegnati ad arrestare un terrorista. 

Quando nel 2003, di fronte all’attacco di Martin Schulz a Silvio Berlusconi, andato in scena all’apertura della presidenza italiana del semestre europeo, ha detto schiettamente (in primis a una sinistra italiana impegnata in volgari speculazioni) che l’attacco dell’esponente tedesco dell’Spd non era a Berlusconi, ma all’Italia. Parlò, cercando volutamente il clamore, di “Quarto Reich germanico” intenzionato a imporre in via definitiva un asse franco tedesco alla guida dell’UE. Una lezione anche per Matteo Renzi, che utilizza in modo superficiale, oggi, i dati negativi dell’economia tedesca. Il nostro premier, anziché denunciare che l’assurdità dell’austerità europea fa ormai male anche alla Germania, e chiedere quindi la revisione dei paletti, persevera nella logica provinciale secondo la quale il metro dell’essere bravi o cattivi è determinato dal plauso (o dalla disapprovazione) degli stranieri.

L’insegnamento cossighiano, nella politica nazionale e internazionale, consiste invece nell’approfondire gli argomenti ma nell’agire, senza sindromi di inferiorità, culturale o politica, nell’esclusivo interesse della nazione.

* Autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau)

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