Politica

La legge sul fine vita e gli assurdi paragoni di Rodotà

Nel suo nuovo attacco sferrato dalle pagine di Repubblica contro la legge sul fine vita proposta dal centrodestra e già approvata in Senato, il professor Stefano Rodotà fa un inquietante passo in avanti nell’operazione ideologica di ribaltamento della realtà a cui stiamo assistendo da almeno due anni a questa parte. La materia del contendere è nota: una delle norme contenute nella legge prevede che non possa essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento (impropriamente definita «testamento biologico») la sospensione della nutrizione e dell’idratazione, «in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze». Qui la normativa riprende, tra le altre cose, il Parere espresso il 30 settembre 2005 dal Comitato nazionale di bioetica, secondo cui la somministrazione di cibo e acqua, avvenga essa per vie naturali o artificiali, è il «sostentamento ordinario di base»: nutrizione ed idratazione «vanno considerati atti dovuti eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere». Non si può quindi parlare, in questo caso, di accanimento terapeutico. La convinzione di Rodotà e di Repubblica, invece, è che la citata disposizione legislativa sia niente meno che una violazione dei diritti dell’uomo e della sua libertà ad autodeterminarsi. La legge, inoltre, farebbe parte di un più generale «progetto autoritario» messo in atto da una «politica prepotente» che «si dichiara padrona dei corpi delle persone» e «pretende di impadronirsi delle vite degli altri».
Per argomentare questa tesi, il professore avanza un paragone che ha a dir poco dell’incredibile: quello con i totalitarismi del Novecento. Per Rodotà, infatti, la normativa votata dal centrodestra rappresenta «l’abbandono del lungo cammino che, partendo dalle esperienze tragiche delle tirannie del Novecento che si erano violentemente impadronite dei corpi delle persone, era approdato all’affermazione netta della essenzialità del consenso dell’interessato». Sancire per legge che dare da mangiare e da bere a una persona che si trova in stato vegetativo persistente rientra nei doveri minimi di umanità nei confronti dei deboli e degli indifesi, sarebbe quindi un atto degno di un regime come quello nazista. Che, come tutti gli studi storici hanno documentato, si è semmai adoperato per fare l’opposto: per sopprimere, calpestare e annientare la vita malata, per imporre la «dolce morte» a centinaia di migliaia di handicappati, storpi, malformati. Se c’è una verità inconfutabile, è che la pratica su larga scala dell’eutanasia di Stato ha rappresentato uno dei punti cardine dei totalitarismi e del loro progetto di dominio assoluto sulla persona, di cancellazione dei suoi diritti, di negazione della sua libertà.
Per questo niente è più anti-totalitario che dire con chiarezza che vi è, nell’uomo, una dimensione indisponibile ad ogni potere, ad ogni interpretazione giuridica di sorta, ad ogni abuso da parte di chiunque, persino da parte di se stessi. Eppure Rodotà, che tenta di presentarsi come il paladino dei diritti umani e della libertà, nega che la vita sia «indisponibile». Scrive che semmai «è vero l’opposto, come dimostra l’ormai consolidato diritto al rifiuto e alla sospensione delle cure, che da tempo le persone già esercitano anche quando sono ben consapevoli che ciò può determinare la loro morte». Ne dobbiamo dedurre che la dignità umana non è un dato assoluto, ma trova un limite nell’autodeterminazione, e dunque il problema dei problemi non è come garantire che tale dignità sia sempre rispettata e tutelata, ma che vi sia il «consenso dell’interessato». Che tra l’altro, nel caso in discussione – e cioè, di fatto, il diritto all’eutanasia per chi si trova in come persistente, anche se il professore non ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome – sarebbe un consenso messo per iscritto magari anni prima e non più riscontrabile nel momento della «dolce morte». Ciò darebbe comunque un carattere di arbitrarietà e di eterodeterminazione a questo gesto, in palese contrasto con le premesse esposte da Rodotà.
Ma queste sono le contraddizioni in cui cade inevitabilmente la prospettiva relativista di cui il professor Rodotà è sostenitore. Una prospettiva che, negando l’esistenza di una verità universalmente valida e non prodotta dall’uomo, dalla società, dal potere (una verità in base alla quale, ferma restando la libertà dell’individuo di aderirvi o meno, si possa stabilire che cosa è bene e che cosa è male), ha come unico esito quello di rendere la dignità della persona un qualcosa di vago ed incerto, e, in ultima analisi, in balia delle mode intellettuali e delle ideologie di turno. E di quella forma culturale di totalitarismo che, con felice espressione, l’allora cardinale Ratzinger definì come «dittatura del relativismo» (da Ragionpolitica).

 

Riguardo l'autore

vocealta