«È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio» dichiarava Albert Einstain e mai come oggi questa frase risulta vera in tutti i campi della vita umana. Anche l’economia non è esente da questo principio e diversi studi dimostrano come i luoghi comuni siano spesso falsi, ma duri a morire.
Per cercare di sfatarne alcuni la banca Hsbc ha commissionato ai ricercatori dell’Università di Padova un’inchiesta che focalizzasse sull’internazionalizzazione delle imprese italiane. Lo studio è stato condotto su un campione di 800 imprese di medie e grandi dimensioni e di diversi settori.
I risultati della ricerca hanno sfatato sette “luoghi comuni” che spaziano dalla delocalizzazione all’uso del “made in Italy” fino alla troppa burocrazia e corruzione.
Eccoli:
- Le imprese delocalizzano per risparmiare. Secondo la ricerca, solo il 22% delle aziende intervistate delocalizza per “risparmiare sui costi”, in primis del personale. Nel 39% dei casi si sposta la produzione oltre i confini per la presenza di clienti o fornitori fondamentali a livello locale. Il 20% degli intervistati “emigra” per la presenza di partner locali qualificati e il 18% per avvicinarsi ai mercati di sbocco;
- Esporta solo il settore manifatturiero. Lo studio rivela come il manifatturiero (ad esempio macchine, utensili e meccanica di precisione) non sia l’unico settore ad esportare. Infatti, nel settore dei servizi esporta il 65% delle imprese;
- In Italia non si innova. Altra bufala, solo il 30% delle imprese italiane non ha innovato e il 90% degli esportatori lo ha fatto. Si può confermare che le aziende che innovano hanno maggiori tendenze all’internazionalizzazione;
- L’industria italiana è in vendita. I grandi gruppi stranieri stanno acquisendo diverse aziende italiane mentre non succede il contrario. Non è proprio così: metà delle medie e grandi imprese ha fatto una acquisizione e nell’81% dei casi si tratta di imprese estere. Questa credenza si è diffusa grazie alle dimensioni delle imprese che i gruppi stranieri comprano. Infatti, le industrie che passano sotto gruppi non italiani sono molto più grandi rispetto a quelle che i gruppi nazionali acquisiscono;
- Esporta solo chi ha il “made in Italy”. Solo un terzo delle imprese intervistate ha deciso di utilizzare il marchio del “made in Italy”. Queste si concentrano in settori specifici come il tessile e moda (80% dei casi) e alimentare (59%). È da sottolineare che chi non usa il marchio “made in Italy” ne riconosce l’incidenza sulle vendite (90%);
- Chi esporta cresce in fatturato e redditività. La ricerca non mostra una relazione diretta tra redditività, produttività e internazionalizzazione. ‹‹Il livello più alto di produttività e redditività è infatti registrato sia in aziende che esportano il 75% della loro produzione sia tra i player nazionali, a dimostrazione che la redditività e la produttività non appartengono solo ai forti esportatori››. Le aziende che tendono a diventare esportatrici sono quelle con un alto livello di produttività, che gli permette, quindi, di ammortizzare i costi derivanti dell’internazionalizzazione;
- La burocrazia è solo un male italiano. Il 61% delle imprese che esportano dichiarano che la burocrazia è un problema anche all’estero, mentre il 47% degli intervistati rimarca la difficoltà di reperire personale adeguato. Anche la corruzione è stato segnalato come un problema da un quinto delle aziende ma, secondo i ricercatori, probabilmente deriva dal territorio in cui l’azienda opera.