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I paperoni d’India che non conoscono la crisi

Forbes stila la classifica dei più ricchi in India e i risultati sono sconvolgenti. Rispetto al 1996, anno in cui erano solo in due, oggi i tycoons sono 52 e, sommati i loro patrimoni, essi accumulano ben 276 miliardi di dollari, ben più di 100 miliardi sopra i loro avversari cinesi, che arrivano a un totale netto di 170 miliardi di dollari.
I settori maggiormente produttivi sono quelli immobiliare, informatico e dell’acciaio. Grazie a loro, il tasso di crescita annuale dell’India è del 6,5% e soltanto la borsa da gennaio ha registrato un incremento del 76%. Dati estremamente vertiginosi se solo si pensa ai meno che da mesi campeggiano nelle statistiche economiche relative all’Italia. Se la crisi globale  solo oggi sembra aver subito un rallentamento, tale da far predire una imminente fine della recessione, essa non ha toccato minimamente il patrimonio dei supermagnati indiani, impegnati in megafusioni tra companies, alleggerimento di debiti azionari e miglioramento delle infrastrutture nazionali privatizzate.
Attraverso la creazione di importanti cordate, come la Tata nel settore autostradale o la Jamshedpur in quello siderurgico, i baroni delle proprietà hanno sopperito alle carenze governative indiane creando un sistema formativo, innovativo ed energetico parallelo a quello statale. Al di là dei benefici di tali miglioramenti, in molti hanno criticato l’andazzo, sulla base dei noti fallimenti dei meccanismi oligopolistici. Solo qualche mese, peraltro, è l’età di una prima legge antitrust varata in India, con la quale, si spera, si otterranno meno miliardari e più milionari.

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