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Forza Italia mafiosa, una balla

C’è un pubblico ministero a Palermo che non merita le reprimenda che Silvio Berlusconi di solito fa ai magistrati politicizzati. Si chiama Antonino Gatto ed è il procuratore generale che al processo d’appello contro Marcello Dell’Utri.
Dell’Utri condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, ha chiesto non solo di confermagli la condanna, ma di aumentargli la pena da nove anni ad undici. E tuttavia l’ha fatto senza mai nascondere qual era il vero obiettivo della procura.
Fino all’ultimo, quando, concludendo e rivolgendosi ai giudici che stavano per entrare in camera di consiglio, ha detto: «Dovete prendere una decisione storica, non solo dal punto di vista giudiziario, ma per il nostro Paese. Voi potete contribuire alla costruzione di un gradino salito il quale, forse, si potranno percorrere altri scalini che potranno fare accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese… C’è un dovere che attiene al modo di essere giudici. Non ci si può fermare il rapinatore che fa la piccola rapina. Qui è il potere che viene processato, un potere che ha tentato di condizionare e di sfuggire al processo».
Con grande sincerità, o se si vuole con eccessivo candore, il procuratore Gatto ha svelato pubblicamente che a Palermo stanno processando Dell’Utri da tredici anni non per i suoi presunti rapporti con qualche mafioso tipo Vittorio Mangano, lo «stalliere di Arcore», come si può processare «un rapinatore che fa una piccola rapina -ma come occasione e pretesto per processare il potere», e un potere responsabile delle stragi «che hanno insanguinato il Paese», cioè per processare Berlusconi e il suo potere, colpevoli di aver trattato con la mafia e averle data mandato di fare le stragi per aprirsi la strada per il governo e il potere: la condanna chiesta per Dell’Utri doveva essere solo un «gradino» per poi salire gli «altri scalini» per inchiodare alle loro responsabilità Berlusconi e i suoi accoliti.
Con altrettanta sincerità, e altrettanto candore,il procuratore Gatto è stato l’unico a riconoscere, appena dopo la lettura della sentenza, di essere stato sconfitto e di aver perduto la partita politica: «Resta una sentenza storica sebbene la Corte non abbia ritenuto di potere salire quel gradino necessario a leggere, secondo quanta avevo proposto, la stagione politica e la vicenda della trattativa… Il teorema della trattativa, sulla fase politica e sulle stragi, se non è stato sepolto,
è stato disatteso dalla Corte… voglio attendere le motivazioni e farmi una ragione di questa sentenza, se sarà possibile».
Che quella di ieri della seconda sezione della Corte di appello di Palermo sia una sentenza storica, e proprio perché i giudici si sono rifiutati di salire quel «gradino», difficile negarlo: con quelle poche parole – «la Corte assolve Dell’Utri dal reato ascrittogli, limitatamente alle condanne contestate come commesse in epoca successiva al 1992, perché il fatto non sussiste» – crollava non solo le accuse mosse in tredici anni a Marcello Dell’Utri, ma crolla tutto il castello dei teoremi sulle «trattative» tra lo Stato e la mafia, e sui «mandanti occulti» delle stragi, e sulle«Entità» politiche che si sarebbero valse della mafia per la scalata al potere, e sul cosiddetto «terzo livello» che governerebbe sulla mafia, e che già Giovanni Falcone aveva bollato come «un’enorme sciocchezza».
Nessuno aveva teorizzato tutto questo meglio del pubblico ministero Antonio Ingroia che, nel richiedere la condanna di Dell’Utri in prima grado, l’aveva raccontata così: «Crollata con la prima Repubblica la Democrazia cristiana, Cosa nostra si trovata nella necessità di trovare nuovi referenti in politica. Vi erano due opzioni in seno a Cosa nostra, una più radicale che faceva capo al cognato di Toto Riina, Leoluca Bagarella, che proponeva di dare vita a una partita secessionista, a cui fu cominciato anche a dar vita con il nome di “Sicilia libera”, e una tesi più moderata che faceva capo a Provenzano e che era per la linea della contrattazione con referenti politici nuovi e più affidabili».
Secondo Ingroia sarebbe stato Provenzano a puntare su Marcella Dell’Utri, già da tempo “ambasciatore” di Cosa nostra presso Silvio Berlusconi, e sarebbe stato Dell’Utri, forzando la mano alto stesso Berlusconi e usando i mezzi e le strutture di Publitalia, a dare vita a un partito nuovo capace di raccogliere l’eredita della Dc, e al tempo stesso “disponibile” verso la mafia, come lo era stata la Dc di Andreotti.
Su questo disegno, secondo Ingroia, avrebbe puntato Provenzano per imporre il nuovo corso di Cosa nostra, quello della mafia «sommersa» e «invisibile», e per diventarne, dopo la cattura di Riina il nuovo capo. Ma, attenzione, dice Ingroia, il vero inventore e, in definitiva, il vero nuovo capo non è Provenzano, ma Dell’Utri.
Provenzano non ha fatto che andargli dietro, restando a vivere nelle stalle, mentre il partito di Berlusconi e di Dell’Utri si installava a Palazzo Chigi: «Provenzano è il folklore, conclude Ingroia, la realtà di Cosa nostra è Dell’Utri».
Da ieri, dalle 10 del mattino, tutto questo «non sussiste», cosi decreta la sentenza dei giudici di Corte d’appello: quali che siano stati i suoi rapporti con personaggi e ambienti di Cosa nostra prima del 1992, durante la prima Repubblica, quando era un semplice cittadino e non si occupava minimamente di politica (e se questi rapporti prima del 1992 ci sono effettivamente stati e in che misura e se sono roba da codice penale, lo stabilirà in definitiva la Cassazione), Marcella Dell’Utri, dall’anno di grazia 1992, ancor prima della nascita di Forza Italia e della discesa in politica di Berlusconi, molto prima, non ha avuto più niente a che fare con la mafia.
Dell’Utri non ha avuto niente a che fare con Provenzano, come sosteneva Ingroia nell’aula di Giustizia e ripeteva in televisione anche recentemente il ventriloquo Massimo Ciancimino, raccontando che l’aveva saputo da quel sant’uomo del padre defunto; e non ha avuto niente a che fare con i fratelli Graviano, come questi hanno raccontato a Gaspare Spatuzza a un tavolino del bar Doney a via Veneto a Roma.
Dell’Utri non ha mai «trattato» con Cosa nostra, ne coi «moderati», ne con gli «stragisti», ne per conto di Silvio Berlusconi, ne all’insaputa di Berlusconi, il Cavaliere «inconsapevole», per fare un partito che conquistasse il Paese e lo consegnasse «nelle mani» della mafia.
Dell’Utri non ha trattato con la mafia nemmeno quando ha raccomandato il figliolo di quel tale D’Agostino, amico dei fratelli Graviano, perché lo facessero giocare nella squadra dei ragazzi del Milan (l’unica «prova» che ha portato il procuratore Nino Gatto, piuttosto un «provino»), perché anche quella raccomandazione a stata fatta molto dopo il 1992, e quel giorno stesso della raccomandazione i fratelli Graviano furono arrestati, e da allora sono in galera, al carcere duro del 4 1 bis, e quel ragazzo, che pure come calciatore prometteva bene, fu cacciato dal Milan.
Provenzano sarà stato pure solo «folklore», come dice Ingroia, e la stessa Cosa nostra sarà stata ed è solo apparenza, perché i veri «sistemi criminali», come sostengono da anni i professionisti dell’antimafia, sono fatti, retti e diretti dai «colletti bianchi», dal «terzo livello», dalla misteriosa «Entità politica», e sono i colletti bianchi, il terzo livello e l’Entità che hanno fatto fare le stragi e hanno aperto la strada e hanno fatto la fortuna di Silvio Berlusconi e del sue partito: ma non è stato Marcello Dell’Utri, Dell’Utri dopo il 1992 «non sussiste», non e state lui, non è lui «la realtà».
Chi sarà stato? E lo troveranno mai? E mentre i professionisti dell’antimafia riprendono, ora da capo, le ricerche, non sarebbe il caso di fare una commissione parlamentare d’inchiesta per scoprire le cause e le responsabilità di coloro, una dozzina di pm e una trentina di giudici di prima grado, d’appello e di cassazione, che, diciassette anni dopo la strage di via D’Amelio e l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scoria, non hanno scoperto ancora i veti esecutori e i mandanti e, proprio per inseguire i mandanti occulti, il terzo livello e l’Entità, dopo ben tre processi, ognuno passato in primo grado in appello e in cassazione, hanno lasciato i colpevoli in libertà e hanno mandato all’ergastolo gli innocenti? (il Giornale).

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