Politica

Etica e giustizia

NapolitanoIl discorso di altissimo profilo tenuto dal Capo dello Stato ai magistrati in tirocinio offre diversi spunti di riflessione. Tra i tanti argomenti toccati, nell’avvertire il bisogno di un superamento dell’attuale contrapposizione fra politica e magistratura, il Presidente Napolitano ha ricordato che negli ultimi tempi l’immagine dei giudici soffre di un “offuscamento”, ed è indispensabile, per i magistrati, ”evitare condotte che creino indebita confusione di ruoli”. La confusione di ruoli cui allude il Capo dello Stato è tra l’altro connessa ai non rari casi di (reale o apparente) autoinvestitura politica o etica da parte di qualche giudice o pubblico ministero, e alla tendenza, verificatasi in epoca passata ma non per questo immeritevole di attenzione, a trasformare (o a dar l’impressione di trasformare) l’azione giudiziaria in un’azione di supplenza morale (o, peggio, moralizzatrice) nei confronti di una politica in crisi.

Nel dibattito fra politica e giustizia, esiste uno specchio deformante, costituito dal ruolo dell’etica nell’applicazione della legge.

Se partiamo dall’opinione pubblica, si nota che una parte significativa di questa chiede a coloro i quali applicano la legge di dare ad essa un contenuto morale: non già ritenendo che la semplice applicazione della legge abbia di per sé un contenuto etico, ma auspicando un’applicazione “eticamente orientata” da parte dell’interprete della norma.

E in effetti, ci sono appartenenti all’ordine giudiziario che interpretano il proprio ruolo non già come quello di un’istituzione cui si richiede l’applicazione e l’interpretazione della norma secondo canoni prefissati e condivisi, ma la finalizzazione (starei per dire la manipolazione) della stessa in senso etico; in questo modo, essi cercano di veicolare, attraverso i propri compiti d’istituto, il proprio convincimento personale (in senso morale, ma anche politico, economico, eccetera); e quindi, indirettamente, di cambiare o almeno influenzare la realtà con i propri personalissimi principi.

Vi è, anzi, una vera e propria battaglia culturale, anche all’interno della magistratura, tra coloro che muovono dal dato normativo per farne applicazione secondo i principi e i canoni ermeneutici prestabiliti dall’ordinamento, e coloro i quali, partendo dalla norma, ne fanno uno strumento per affermare il proprio credo o, quanto meno, per rendere compatibile la norma stessa con i loro principi morali, con la loro Weltanschauung, con la loro visione del mondo (in senso etico, politico, sociale), fino al punto –non di rado- di forzarne o addirittura sovvertirne il precetto e lo stesso significato.

Una differenza culturale radicale per due modi radicalmente diversi di intendere il proprio ruolo: di qua, il magistrato fedele alla norma e al suo spirito, e che la adatta al caso concreto secondo criteri stabiliti dallo stesso ordinamento; di là, il magistrato che, apparentemente proteso a dare un senso logico alla norma rispetto al singolo caso, ne modifica, o addirittura ne trasforma in realtà i contorni, sentendosi investito di una missione morale o, peggio, moralizzatrice; che è poi quella che una parte della pubblica opinione gli riconosce addosso e si aspetta da lui.

Giudici e PM politicizzati non sono solo quelli che vanno in televisione a parlare “da politici”; ma anche coloro i quali forniscono, quotidianamente, delle norme che applicano un’interpretazione eticamente o politicamente orientata.

Ma, in realtà, se la legge è espressione della volontà popolare attraverso i suoi rappresentanti (con tutte le storture che ciò può implicare nella contingente fisiologia istituzionale), occorre richiamare con chiarezza un elemento di discrimine in ordine al ruolo delle leggi e a quello degli interpreti e operatori del diritto: i contenuti etici, politici, sociali costituiscono un dato che la norma contiene –o dovrebbe contenere- in sé fin dal momento del suo ingresso nell’ordinamento, essendo appunto la norma espressione di una volontà politica; la sensibilità dell’interprete del diritto e di chi la legge è chiamato ad applicare deve restare confinata nel perimetro prefissato dalla norma e, più in generale, dall’ordinamento; e non può esondare fino al punto di manipolare il dato normativo secondo una direzione a lui gradita o da lui ritenuta più giusta sul piano sostanziale o etico.

Lo stesso legislatore ha stabilito i criteri interpretativi cui attenersi nell’applicazione della legge; solo in casi determinati non altrimenti risolvibili, esso introduce clausole generali soggette a un’interpretazione da adeguarsi al singolo caso, o fissa criteri generali “a maglie larghe”, ai quali l’interprete può dare un significato adatto al caso concreto secondo la sua sensibilità e nell’esercizio, corretto e fisiologico, della sua discrezionalità. Per il resto, i criteri applicativi e interpretativi della legge –in un ordinamento, come il nostro, in cui la tendenza del legislatore è quella di coprire quanto più possibile con previsioni “ad hoc” la molteplicità di casi in cui la legge deve trovare applicazione- valgono in modo rigoroso, e sono tendenzialmente mirati a sottrarre all’interprete gli spazi per un’interpretazione della norma che sia ispirata e condizionata dalle proprie personali convinzioni.

Le norme dell’ordinamento sono soprattutto garanzia, per il cittadino, di una disciplina generale e astratta, sottratta come tale –quanto più possibile- a possibili strumentalizzazioni etiche o politiche da parte del singolo interprete; sono, se si vuole, un atto di “sfiducia” (non spaventi il termine provocatorio) non solo nei riguardi dei consociati ai quali esse devono essere applicate, ma anche nei confronti di chi ne deve fare applicazione in concreto; sono, soprattutto, la materializzazione (pur con tutte le sue storture: ma qui si parla di fisiologia ideale del sistema) di ciò che dovrebbe essere lo spirito della democrazia, come espressione della volontà e del senso etico del popolo. Utilizzarle, nella loro applicazione al caso concreto, come strumento di prassi politica o di condizionamento morale, colloca l’operatore del diritto in una posizione di contrasto, anzi di collisione, con il proprio ruolo istituzionale. Discrezionalità vuol dire misura –entro limiti noti- di un potere o di un’attribuzione; non già arbitrio o facoltà di strumentalizzare il dato normativo.

Si dirà: ma ragionando in questi termini si respinge, o si restringe in un angolo, l’interpretazione evolutiva: quella che ha consentito all’interprete del diritto, nel tempo, di adeguare la norma ai tempi che cambiano.

È un’obiezione che va respinta: l’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali, nella maggior parte dei casi, è legata non solo alla sensibilità di chi applica la legge, ma anche ai mutamenti, talora impercettibili, talora più evidenti, che interessano l’ordinamento nel suo complesso: non può comprendersi ciò se ci si rivolge all’adozione dei criteri ermeneutici come se essi fossero parcellizzati e delimitati dai confini di ciascuna norma e se si prescinde da un dato fondamentale, che le stesse regole interpretative enunciano con chiarezza: ossia che si richiede all’interprete non solo l’interpretazione letterale delle norme, ma anche quella collegata ad altre disposizioni che regolano casi concreti (c.d. analogia) e infine quella legata all’osservanza dei principi generali dell’ordinamento. Se quest’ultimo evolve, perché ne mutano le regole, ciò potrà riverberarsi (e spesso, in concreto, si riverbera) sull’attività interpretativa, che ai principi generali dell’ordinamento deve essere comunque ispirata.

Entro i margini di cui si è detto, il dato normativo è comunque ineludibile; e gli operatori del diritto (i magistrati per primi) devono agire nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento, e guardarsi dall’adozione di canoni interpretativi che sono frutto di un uso strumentale dell’esercizio dell’azione giudiziaria e che, di fatto, li espongono, e per proprietà transitiva espongono l’intero ordine giudiziario, a rischi di delegittimazione o di perdita di credibilità.

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