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6 MARZO 93′: ASSASSINATA LA REPUBBLICA

Cari amici,
Noi siamo qui oggi per ricordare un colpo di Stato. Una cospirazione che si è protratta per quasi due anni.
Ogni cospirazione, però, ha i suoi punti salienti.
Ed ha perfettamente ragione Carlo Giovanardi a fissare l’assassinio della Prima Repubblica al momento del rifiuto del Presidente Scalfaro di firmare il decreto del Ministro della Giustizia Conso.
Il clima era già teso, le piazze erano già state scatenate, i giornali avevano già cominciato a gridare le loro menzogne. Così come non mancavano gli arresti strumentali per le “confessioni” strumentali. Così come non mancavano i suicidi e le morti di crepacuore. Le bombe, propedeutiche a quel clima, le avevano già fatte esplodere. Ma quel venerdì sabato e domenica di inizio marzo, segnarono definitivamente “la resa della repubblica”.
Quando il capodanno che dava inizio al ’93 si era consumato già da tre mesi, la classe dirigente che fino a quel momento si era barcamenata, iniziò a porsi interrogativi sulle azioni che andavano poste in essere per dare una soluzione politica a Tangetopoli. Naturalmente Craxi lo aveva già fatto nel suo discorso del luglio 92, senza riscontri.
All’inizio di marzo, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso prepara un provvedimento che, sostanzialmente, depenalizza il reato di finanziamento illecito. Non lo cancella, non introduce l’amnistia, rende le pene meno severe.
Il 3 marzo, Renato Altissimo, segretario del Partito Liberale, va a Palazzo Chigi per incontrare Amato. Vede uscire Gerardo Chiaromonte, senatore Pci/Pds di lungo corso, l’unico fra i comunisti a porsi il problema di come scongiurare il colpo di Stato, che lo esorta: “Dillo anche tu a Giuliano di far presto con il decreto, altrimenti l’Italia è persa”.
Dopo pochi minuti di discussione fra Altissimo e Amato, entra Fernanda Contri, Segretario Generale di Palazzo Chigi: tornava da Milano, dove aveva preventivamente ricevuto l’ok da Borrelli sul decreto Conso.
E’ quel Borrelli che afferma, in barba alla legge, che il segreto istruttorio vale solo quando serve al proseguimento delle indagini; è un magistrato inquirente che offende tutto il ramo giudicante affermando che “non c’è bisogno di aspettare le sentenze: l’operazione grande bucato è già fatta”.
E’ il responsabile primo di tutte le violazioni di legge, dei metodi inquisitori, del carcere come strumento per estorcere confessioni. Rimase famosa la sua frase “non li incarceriamo per farli parlare, ma li scarceriamo se parlano”, pronunciata saltando a piè pari secoli di giustizia penale, oltre a tutte le convenzioni sui diritti dell’uomo.
Il vaglio di Borrelli voluto da Amato si può già considerare il primo delitto: il Presidente del Consiglio, prima di emanare un decreto, lo aveva fa controfirmare dalla Procura di Milano.
Il Potere per eccellenza, l’unico legittimato dal popolo, aveva dovuto ricorrere ai magistrati di Milano prima di presentare un atto di legge.
Il Pool di Mani Pulite era ormai diventato il Consiglio degli Ayatollah, ossia un autorità morale, un’entità impunita e impunibile, rappresentante un presunta nuova morale ma non solo, un nuovo potere, in grado di applicare la forza su qualunque persona, scavalcando centinaia di anni di separazione dei poteri, di garanzie costituzionali e civili, facendo ripiombare il paese nel medioevo.
Questa era la posta in gioco di quella stagione, solo questa. Non gli arresti o la corruzione, ma il mantenimento del potere nelle mani del popolo e della politica. Di questo si lamentava Craxi. E di questo morì in esilio.
Amato, in quel momento, ha svenduto la democrazia. Questo è già un limpido presagio di quello che sarebbe successo. Come saggiamente sottolinea Paolo Cirino Pomicino: “quello fu l’atto di nascita della seconda repubblica”, e fu un parto matricida.
Venerdì 5 marzo si riunisce il Consiglio dei Ministri per approvare il Decreto Conso.
Il nulla osta di Scalfaro arrivò durante la riunione, quando convocò in fretta e furia Amato al Quirinale per farsi spiegare ogni comma. Il giorno dopo, i giornali “ratificavano” il decreto senza particolari grida.
Il Corriere della Sera titolò addirittura: “Questo non è un colpo di spugna”.
Intanto alla procura di Milano le menti del Pool erano riunite, in quel sabato 6 marzo, per aggiornarsi sulla nuova legge. Ed è qui, nel Consiglio degli Ayatollah, che cambiano le sorti del Decreto, del Governo, della politica, della democrazia.
I magistrati, infatti, si resero conto che il finanziamento illecito, così depenalizzato, non poteva più essere usato per arrestare. Cadeva un arma di ricatto nei confronti della politica e dell’impresa. Veniva meno la macchina di tortura per estorcere confessioni di comodo. Quale imprenditore avrebbe dichiarato quello che volevano Borrelli e gli altri, se avesse potuto affrontare il processo da uomo libero? Quale politico si sarebbe sentito minacciato nell’onore se non correva il rischio di essere infangato dalle manette?
Ma, soprattutto, senza quelle dichiarazioni estorte, non si sarebbe mai arrivati, con le “prove” a disposizione dei PM, a poter incriminare per corruzione o concussione i loro bersagli politici.
Veniva meno uno strumento, lo Strumento, che aveva sconvolto il paese negli ultimi mesi: cioè l’inizio del processo con l’arresto, senza possibilità di difesa se non quella di accusare il pezzo più grosso della piramide politica che i magistrati dovevano demolire.
La rivoluzione rischiava di implodere, bisognava mettere in atto un operazione contraria, bisognava dare alla politica una dimostrazione di autorità.
Allora, e solo allora, nel pomeriggio di quel sabato, si decise l’operazione. Ecco come si è strutturata.
Il segretario della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, telefona ad Amato per comunicargli che il decreto aveva problemi di costituzionalità (un rilevazione mai comunicata ad Amato nei suoi incontri con Scalfaro).
La “redazione unificata” dei grandi giornali, come ebbe a chiamarla Antonio Polito, si appresta a stampare, per il giorno seguente, titoli e articoli completamente diversi da quelli che, sullo stesso argomento, erano ancora sui tavolini dei bar di tutta Italia. La Stampa parlerà di “furto a Di Pietro”. La Repubblica titolerà “il Governo dello Scippo”.  Ed il Corriere che solo 24 ore prima aveva titolato “Questo non è un colpo di spugna”, incanterà i lettori con un “Hanno seppellito Mani Pulite”. Questa è la stampa libera, in Italia.
Ma il vero segno di come l’Italia fosse ormai un paese in mano a quella Procura è dato da un dettaglio. Il Decreto doveva essere già esecutivo, quel sabato. Doveva essere arrivato alla firma di Scalfaro già il venerdì sera. Ma, evidentemente, la Procura non aveva ancora sciolto le sue riserve: il decreto Conso non era ancora uscito da Palazzo Chigi.
Il capo dell’ufficio legislativo lo aveva ancora sul suo tavolo. Questo funzionario dello Stato aveva scelto di trattenerlo per correzioni formali. Quel sabato pomeriggio, quindi, Scalfaro poteva ancora non firmare il decreto. A togliere il Presidente della Repubblica da ogni imbarazzo arriverà il vero atto inaudito per una democrazia: domenica mattina, con la nuova linea dei giornali ancora fresca nelle edicole, il Pool di Mani pulite trasmette a reti unificate il messaggio del Consiglio degli Ayatollah: un Di Pietro affannato, in mezzo agli eunuchi, legge il vero decreto, e seppellisce quello di Conso.
Ogni ipocrisia ha i suoi lati comici.
Quello stesso pomeriggio Conso corre da Amato e minaccia le dimissioni se il suo decreto dovesse essere emanato.
Il Ministro Conso rieducato si schierava contro il Ministro Conso libero.
Ma Amato non ha ne tempra ne tempo per ribellarsi. Lo chiama al telefono il solito Gifuni per convocarlo al Quirinale. Scalfaro aveva fissato una riunione d’urgenza, insieme ai presidenti di Camera e Senato, Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini.
In questa riunione si chiuse ogni sbocco politico per la soluzione della grave crisi di Tangentopoli.
Borrelli e Di Pietro marciavano trionfanti per le vie di Roma. 
Il 6 marzo 1993 non fu solo l’atto di nascita della Seconda Repubblica, fu l’assassinio della democrazia e della politica, il naturale compimento di un golpe: è in quei giorni che si trova la pistola fumante del delitto.
Il Presidente del “io non ci sto” e il Procuratore del “resistere, resistere, resistere”, ma anche i D’Alema, Veltroni e Bassolino, i Caino del Partito Socialista, i pavidi della Dc e i direttori dei giornali al soldo di finanzieri senza scrupoli, possono oggi rimirare il capolavoro compiuto.
La nuova classe dirigente nata da tangentopoli ha regalato al paese quindici anni di non governo, la svendita dei grandi patrimoni dello Stato, una giustizia al collasso, una mobilità sociale inesistente, un’economia ferma. Ma soprattutto una situazione politica instabile, che si regge grazie al carisma e alla leadership di un uomo, mentre i “nuovi” che avrebbero dovuto cambiare il paese sprofondano in una crisi che mette in discussione addirittura l’esistenza di una opposizione, che ha perso il senso della realtà e non fa più politica.
 Come diceva Bettino Craxi: “sono certo che la storia condannerà i miei assassini”.
E’ l’unica nota positiva di una rivoluzione che ha distrutto l’Italia: ora siamo in condizioni di ricostruirla.

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