Ci vorrà tempo per dare un giudizio puntuale sulle norme inserite nel decreto approvato ieri sera dal Consiglio dei Ministri. Ha ragione il premier Giuseppe Conte quando, per giustificare i ritardi nell’approvazione già prevista per il mese di aprile, sostiene che questo decreto vale – per risorse impegnate – due leggi di bilancio. Hanno anche ragione però i suoi detrattori quando affermano che la norma non può garantire il rilancio dell’economia del nostro Paese.
È piuttosto un decreto omnibus che contiene norme dedicate a diversi settori; un decreto che movimenta cospicue risorse in una logica però simile a quella del Milleproroghe, quando dopo estenuanti trattative si cercava un accordo fra i gruppi parlamentari, facendo ricorso anche alle cosiddette norme – mance.
256 articoli in 495 pagine sono un esercizio difficile per i non addetti ai lavori.
Sul piano degli indennizzi e dei risarcimenti il decreto andrà sicuramente migliorato, ma si può già dare atto di un intervento che cerca di riparare i danni subiti da una vasta pluralità di soggetti colpiti dalla pandemia.
Purtroppo però manca nel decreto una strategia di politica economica e produttiva.
Non ci sono misure davvero strutturali per il tessuto, non si individuano scelte e meccanismi che possano aggredire nei fondamentali i problemi della produttività, della competitività, dell’innovazione, del debito pubblico. Problemi – questi ultimi – non risolvibili con il reddito di cittadinanza o il reddito di emergenza.
Il governo ignora che sul piano della competitività e della crescita l’Italia, prima di essere travolta dal coronavirus, era in fondo alla classifica tra i 27 Paesi della UE.
Il testo potrebbe meglio chiamarsi “decreto risarcimento”, come ha suggerito un noto economista editorialista.
L’enfasi con cui è stato presentato in conferenza stampa mi suggerisce un paragone: “Questo decreto muove risorse di entità mai vista nel passato …” dice il presidente del Consiglio; in punta di verità, vorrei dare testimonianza di quando ero Sottosegretario al Ministero del Bilancio e l’allora governo di Giuliano Amato fece nel 1992 una manovra di identica portata (90.000 miliardi di lire) con cui salvò l’Italia, inserendo nella Finanziaria di quell’anno («lacrime e sangue», verrebbe da dire) ben quattro riforme strutturali: la riforma delle pensioni, quella della sanità, quella del pubblico impiego e quella della finanza locale.
Quella manovra approvata dal Parlamento con un distacco di otto voti di fiducia contribuì a far uscire il Paese dalla crisi e pose le premesse per un vero rilancio economico e produttivo.
Luigi Grillo,
già Senatore della Repubblica