Archivio di Cultura

Berselli, il più mancino dei maestri

È stato un maestro. Che non amava essere venerato. Perché la venerazione non gli si addiceva. Né quella portata agli altri, ai grandi della cultura. Né quella che qualcuno poteva nutrire per lui; ché, in fatto di cultura, giganteggiava. Troppo ironico. Troppo disincantato. Troppo amante del basso profilo e della relativizzazione – non necessariamente del relativismo – propria di chi aveva da tempo preso le distanze dai furori ideologici di qualche decennio fa. Niente manicheismi, niente schieramenti irriducibili, niente punti esclamativi, meno che mai luoghi comuni sui quali adagiarsi.
Stare vicino a Edmondo Berselli, condividere con lui qualche progetto editoriale o televisivo come ho avuto la fortuna di fare, era un’esperienza umana e intellettuale entusiasmante. Collaborammo a un ciclo di trasmissioni per la Raidue di Antonio Marano, il «leghista» che mise nella stessa squadra il sociologo, direttore editoriale del Mulino che scriveva per la Repubblica, un autore di lungo corso come Romano Frassa, Anna Carlucci, Andrea Quartarone e me. Provammo a raccontare costumi e ricchezze dell’Italia nordista, del Mezzogiorno e della Valle del Po, sulle orme di Mario Soldati. E altri progetti avrebbero dovuto seguire se la malattia che ce lo ha tolto per sempre non l’avesse prima costretto a una vita dimezzata.
A 55 anni aveva avuto l’umiltà di rimettersi in gioco e provare a imparare il mestiere di narratore televisivo. Sempre sulla scorta dell’ironia, della ricerca, dell’irrequietezza. Si definiva «un reazionario per i progressisti e un progressista per i reazionari», ma in buona sostanza era un riformista dalla cultura sconfinata. Che forse proprio grazie a questa dava importanza alle cose di tutti i giorni, ai divertimenti popolari, quotidiani, quelli della gente comune. Il calcio. La musica. Il cinema.
Come i suoi libri, da Il più mancino dei tiri a Canzoni. Storia dell’Italia leggera, da Venerati maestri a Liù. Biografia morale di un cane, anche le chiacchierate con lui erano navigazioni che, salpando dalla quotidianità, con la sola bussola della curiosità e del disincanto, approdavano a sintesi paradossali, a fulminanti aforismi, a piccole oasi per bastian contrari. Dalle quali sgretolava l’armamentario più stantio del bipolarismo culturale in voga nella cosiddetta seconda Repubblica. Mi confidò una volta: «A differenza di una certa sinistra che pensa ai miti popolari, e se dice di amare la musica e lo sport spesso lo fa in modo paternalistico, a me piace tutto ciò che è popolare, come il cinema e il calcio, e sono convinto che difficilmente il popolo sbagli». Il benpensantismo di sinistra lo irritava, almeno quanto la plastica che anestetizzava la destra più rampante.
Lo si capì alla grande quando, nel 2006 pubblicò Venerati maestri nel quale, riprendendo la vecchia tripartizione di Alberto Arbasino («giovane promessa, solito stronzo, venerato maestro»), con il suo stile sulfureo si divertiva a smontare «i totem culturali delle professoresse democratiche».
Perciò La vita è bella di Benigni diventava «un filmetto da due soldi», Siddharta di Herman Hesse «una cretinata». E non venivano risparmiati Baricco, che nessuno si sognava lontanamente di stroncare per la sua pochezza narrativa, né Nanni Moretti o Paolo Mieli, Franco Battiato o Roberto Calasso. Contestava un clima, l’unanimismo dell’egemonia sinistreggiante, trionfante nei giornali e nelle case editrici, ma minoritaria nel Paese.
Così,la sua «operetta immorale sugli intelligenti d’Italia», il «primo libro comico sulla cultura» de noantri cadde come un sasso nella melassa. Imbarazzo, dibattiti perplessi, poche recensioni nelle testate più cool. L’anno dopo arrivò un’altra frustata sul più gigantesco dei totem democratici. In Adulti con riserva, Berselli celebrava la spensieratezza dei primi Sessanta, dal boom economico alla Vespa, dalle minigonne al vento del beat, prima che tutto venisse tumulato in «quel sarcofago ideologico» che risultò presto essere il ’68.
L’ultima sua fatica letteraria era stata Liù. Biografia morale di un cane, portata a termine quando già la malattia lo aveva attanagliato. Ma che pure sembrava dargli speranza, come mi aveva annunciato, incredulo e grato, in una telefonata commossa: «La malattia è regredita… Ce l’ho fatta a scrivere il libro su Liù…». Liù era la sua Labrador. Alla quale, in qualche modo, doveva un certo recupero del sentimento che aveva aiutato uno scettico blu come lui a ridimensionare l’orgoglio della conoscenza, in favore della saggezza e dell’autoironia.
Doti tipiche dei veri maestri (il Giornale).

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