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Il dl sicurezza fa scricchiolare il M5S, si allarga la fronda interna

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Spread, condono fiscale, Tap, Tav. Sono tantissimi i temi che nelle ultime settimane stanno facendo cigolare tanto l’alleanza di governo fra Lega e Movimento 5 stelle quanto la tradizionale compattezza dell’armata pentastellata. A capo di una delle fronde interne al partito di Beppe Grillo c’è Paola Nugnes, senatrice e componente della corrente più a sinistra del movimento, quella comunemente definita “ortodossa” e che trova in Roberto Fico un suo fermo riferimento. È stata proprio Nugnes a spiegare – a margine dei lavori della commissione Affari costituzionali del Senato sul dl sicurezza – le ragioni di questa “ribellione”: «Voglio votare contro questo provvedimento, partito male, ma nel caso di un'eventuale fiducia mi riservo di valutare il da farsi». «Io – ha poi aggiunto – sono portatrice della visione originaria, iniziale, del movimento e non condivido questa sua trasformazione alla quale sto assistendo».

Così, mentre la tensione sale e l’atmosfera si riscalda, Luigi Di Maio decide di convocare un’assemblea congiunta per discutere sulle questioni più spinose, compresi Tap, decreto sicurezza e – ovviamente – la manovra finanziaria. Tuttavia Nugnes annuncia che diserterà l’incontro: «Siamo fuori tempo massimo – spiega all'Adnkronos – per parlare del decreto sicurezza e per cercare un modo di partecipare e collaborare».

Non ci sarà neanche Elena Fattori, sfidante di Di Maio alle primarie che lo incoronarono capo politico e candidato premier del movimento. La senatrice si era già scagliata contro la deriva del movimento, utilizzando proprio un’espressione che – in tempi non sospetti – era stata attribuita ad Alessandro Di Battista. Se in campagna elettorale – spiega infatti Fattori – i candidati del M5S avessero anticipato ciò che sarebbe successo in questi mesi di governo, «mi avrebbero preso per folle o per lo meno mi avrebbero rincorso con torce e forconi». Assente come lei anche Matteo Mantero, che come i due senatori già citati si oppone al decreto di matrice leghista. 

Si fa sempre più folta quindi la fronda ribelle interna al movimento, mentre cresce l’insofferenza dei dissidenti nei confronti della subalternità instaurata rispetto a Salvini e dell’incoerenza dimostrata in varie occasioni, ultima delle quali quella sul caso Tap. Del resto Di Maio ci ha provato a ricompattare i suoi, sfoderando in un post di ieri una metafora con la testuggine romana, «una formazione di fanteria dell'esercito romano che era di grande complessità perché richiedeva un importante coordinamento collettivo». A dargli manforte anche il premier Giuseppe Conte da New Delhi, dove si trova in visita. «Le osservazioni critiche sono le benvenute ma occorre una sintesi e chi si riconosce nella maggioranza deve assumere un atteggiamento di consapevolezza e responsabilità», dice il presidente del Consiglio. Secondo Conte è necessario attenersi «al contratto di governo se un provvedimento si radica in quello che è previsto nel contratto, a un certo punto bisogna tirare le fila».

Così il governo è costretto a iniziare a contare i suoi parlamentari, nel timore che quando il provvedimento approderà in Aula potrebbe non trovare i numeri giusti per passare. Sulla carta sarebbero 6 i voti in più rispetto alla maggioranza assoluta su cui Lega e M5S possono contare: 167 senatori divisi fra 58 leghisti e 109 pentastellati, a fronte di una maggioranza richiesta di 161. Sedici voti sotto invece sono le forze di opposizione, ferme a quota 151. I franchi tiratori del M5S dichiarati sono al momento solo 4: Matteo Mantero, Paola Nugnes, Elena Fattori e Gregorio De Falco. Sarebbero sufficienti altre due diserzioni per mandare il governo sotto la soglia.

E anche a Roma si registra la fine della luna di miele fra i due partiti di governo. Maurizio Politi, capogruppo della Lega in assemblea capitolina, parlando a Radio Cusano Campus delle prossime elezioni per il comune di Roma, annuncia: «Troveremo un nostro candidato». «La Lega è una realtà vera su Roma – ha spiegato – siamo in attesa della sentenza sul sindaco, che per statuto dei 5S in caso di condanna dovrebbe dimettersi. Aspettiamo il 10 novembre». «Io non credo che Virginia Raggi debba dimettersi per questioni giudiziarie – aggiunge Politi – ma per i disastri che sta facendo a Roma». Secondo il consigliere leghista – «siamo all'opposizione contro una delle peggiori amministrazioni di Roma, e quindi sabato eravamo in piazza per dire basta».

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