Politica

Fini, il lupo di carta

Al termine del pranzo di ieri sia Gianfranco Fini che Silvio Berlusconi avevano taciuto sull’esito dell’incontro. Giornalisti e politici cercavano di capire cosa fosse accaduto e per alcune ore si sono rincorse voci e ipotesi.
Fino a quando, poco dopo le cinque del pomeriggio l’Ansa batteva la seguente nota: “Toni di rottura nel vertice tra il premier Silvio Berlusconi ed il presidente della Camera Gianfranco Fini. Quest’ultimo – riferiscono fonti di maggioranza – ha esplicitamente detto che è pronto a costituire suoi gruppi autonomi in Parlamento, accusando governo e Pdl di andare a traino della Lega. Il premier Berlusconi – riferiscono le stesse fonti – avrebbe chiesto 48 ore di riflessione”.
Poche righe che vanno ben analizzate per capire lo stato delle cose. È evidente che le fonti di maggioranza che avevano dato all’Ansa la brevissima dichiarazione erano gli stretti collaboratori di Gianfranco Fini e che ogni parola era stata soppesata per dare maggiore forza al messaggio.
Fini faceva sapere di aver detto di “essere pronto” a costituire gruppi parlamentari autonomi, cioè di rompere l’unità politica del partito in Parlamento e di disporre di un seguito di almeno venti deputati e almeno dieci senatori. “Essere pronto” è diverso da “accingersi a” o “desiderare di”. Non è, cioè un annuncio, ma una pressione, una minaccia. Ma a chi era rivolta quella minaccia? A Silvio Berlusconi, come può apparire ad una prima lettura? No. Fini parlava agli ex-An, a coloro i quali rimprovera di averlo abbandonato per consegnarsi alla leadership di Berlusconi.
Già mesi fa Gianfranco Fini aveva convocato gli ex-colonelli di An e aveva chiesto loro di riaffidargli il mandato di rappresentare la quota del 30% che negli accordi alla base del Pdl era stata assegnata a quel partito. La risposta, allora, fu che Fini li avrebbe rappresentati su tutto, tranne che sugli argomenti sui quali il presidente della Camera, insieme a Fare Futuro, si era “smarcato” dalla tradizione della destra: bioetica, immigrazione, cittadinanza degli stranieri, voto agli immigrati e così via.
Un patto che era venuto via via meno a causa del metodo seguito da Gianfranco Fini per rappresentare le sue posizioni: un metodo straordinariamente sintetizzato in una vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera, in cui Fini dice: “Quando Berlusconi non parla non so come contraddirlo”.
Con la minaccia di costituire gruppi parlamentari autonomi Fini cerca di piegare i suoi ex-sodali a quel patto da lui stesso distrutto; perché aderire ad un gruppo parlamentare significa compiere una scelta senza ritorno, dare una dimostrazione di fedeltà ad uno o all’altro, non compiere una scelta politica su alcuni temi o su altri. Perché se Gianfranco Fini avesse voluto una conta tra le diverse posizioni del partito sui temi politici del momento non avrebbe scelto il terreno dei gruppi parlamentari, ma quello del voto su documenti negli ambiti del partito, visto che mercoledì prossimo è convocata una direzione nazionale allargata ai gruppi parlamentari, un organismo statutario nel quale potrebbero confrontarsi e contarsi tesi contrapposte. Una sede in cui si sarebbe potuta determinare con chiarezza la consistenza numerica della pattuglia finiana. Con la mossa di ieri Fini ha invece voluto evitare proprio quella conta.
Il secondo aspetto da esaminare è la motivazione per la quale – secondo la nota di agenzia ispirata dai finiani – si giustificava la minaccia di rottura parlamentare. Ossia la presunta subalternità di Berlusconi e del Pdl alla Lega Nord. Non c’era giorno più sbagliato per sostenere questa tesi che da tempo gli uomini vicini al presidente della Camera ripetono come un mantra lamentandosi non di fatti reali, ma delle iniziative di propaganda di Umberto Bossi.
La notizia politica vera del giorno precedente, infatti, era di segno totalmente opposto alla presunta subalternità del Pdl alla Lega. La notizia era che il ministro dell’agricoltura che sostituirà il leghista Luca Zaia eletto presidente del Veneto sarà Giancarlo Galan, ex presidente del Veneto, uomo del Pdl; a dispetto di tutta la propaganda bossiana con cui il Carroccio aveva rivendicato per se quella poltrona. Una notizia abilmente messa in secondo piano da Bossi con il suo proclama sulle banche del Nord al quale tutti i grandi giornali avevano dato il titolo di  maggiore evidenza, nascondendo così il fatto che Berlusconi, ancora una volta, avesse esercitato a pieno la sua leadership sulla coalizione e avesse costretto il Carrroccio a rispettare gli accordi. Peccato che i grandi intellettuali che circondano Fini leggano i titoli e non analizzino i fatti e si siano fatti infinocchiare dalla genialità comunicativa di Bossi che ha nascosto una rinuncia con un annuncio di conquista.
La terza questione che lo scontro di ieri solleva è il valore elettorale eventuale di un partito finiano, nel momento in cui si costituisse. Ebbene, al di la dei sondaggi più o meno favorevoli a Fini, nelle scorse regionali abbiamo avuto la misura precisa del consenso che Fini sposta. Ed è quello che il Pdl ha perso rispetto al 2008 a favore della Lega Nord. Una cifra compresa tra il 4 per cento in Piemonte, il 4,5% in Toscana, l’1,5% in Veneto, il 4% in Emilia – Romagna, l’1,5% in Lombardia.
In altre parole la posizione di Gianfranco Fini – in particolare su immigrazione, cittadinanza e voto agli immigrati – fa perdere voti al centrodestra e non ne attrae di nuovi da altre aree politiche. Il suo non è valore aggiunto, ma valore perso.
Perché con le sue posizioni Fini ha lasciato scoperto il fronte destro dello schieramento, ha fatto in modo che quella domanda politica e sociale si indirizzasse alla Lega. Un fenomeno simile a quello avvenuto alle europee del 1999, quando con l’alleanza con Mario Segni nell’Elefantino e il tentativo di presentarsi come forza liberaldemocratica di centro, aveva portato molti elettori tradizionalmente di An verso Berlusconi e Forza Italia. Fu sufficiente allora che Silvio Berlusconi, intervenendo all’assemblea programmatica di Alleanza Nazionale di Verona, regalasse a tutti i delegati l’edizione italiana del Libro Nero sul Comunismo, dicesse con chiarezza al popolo della destra chi rappresentasse con integrità l’anticomunismo in Italia.
Oggi chi avesse voluto punire Fini e premiare Berlusconi non aveva la possibilità di farlo, perché il simbolo e il partito sono gli stessi. E allora quegli elettori hanno votato per Berlusconi attraverso un voto a Bossi e alla Lega. E solo la genialità di Berlusconi, che ha voluto Umberto Bossi alla manifestazione nazionale di Roma, ha consentito di mantenere nello stesso campo una quota di voto messa in fuga dalle posizioni finiane.
La quarta questione è quella delle conseguenze della eventuale costituzione di un gruppo finiano sul prosieguo della legislatura. Hanno un bel dire Fini e i suoi che la lealtà al governo è fuori discussione e che Berlusconi deve governare fino alla fine della legislatura perché così hanno voluto gli italiani. Gli italiani hanno anche voluto votare un unico partito a guida berlusconiana, con un solo gruppo parlamentare alla Camera e al Senato. Ed è evidente che un nuovo gruppo parlamentare aumenta l’instabilità politica della legislatura, non il contrario. Il che rende molto difficile, se non impossibile il percorso delle riforme costituzionali, tenendo conto sopratutto del fatto che il periodo di stabilità politica effettiva che abbiamo davanti a noi è pari ai quindici mesi di tregua offerti dalla legge sul legittimo impedimento e non i tre anni senza elezioni generali di cui tutti scrivono. Se non si giunge rapidamente alla legge costituzionale di tutela giudiziaria del premier e delle alte cariche dello Stato, si riprodurrà quella fase di conflittualità che abbiamo vissuto dallo scorso sei ottobre – giorno della bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta – a poche settimane fa, quando la legge sul legittimo impedimento e la vittoria elettorale alle regionali hanno reso più forte Silvio Berlusconi e la maggioranza di governo.
Ed è proprio questo che sembra aver prodotto la reazione così forte di Fini e dei suoi. Era stato preparato un percorso di iniziative politiche che partiva dall’ipotesi di una sconfitta elettorale nelle regioni e il rovesciamento del quadro – oggi il centrodestra governa in undici regioni mentre il centrosinistra ne guida solo otto –  che è tutto da disfare. Fini, invece, recita un canovaccio che già si era preparato ed è in totale distonia con il suo partito, con gli elettori, con le prospettive di riforma in questa legislatura. È insomma di fatto all’opposizione del cambiamento. Ed è per questo che la sua posizione è sempre più incomprensibile. Perché la sua scelta, se giungesse fino in fondo come egli ha fatto trapelare ieri, sarebbe un definitivo suicidio politico. Speriamo che nelle quarantotto ore che Berlusconi gli ha offerto per meglio riflettere il presidente della Camera non compia l’errore definitivo della sua carriera. Tutti quelli commessi dal 1996 ad oggi gli sono stati perdonati dagli alleati e dagli elettori. Ma la continua perseveranza nell’errore mette in discussione non la lealtà, ma la capacità di comprendere la politica. Ieri Fini avrebbe detto che si sarebbe trasformato in un lupo. Parafrasando Mao, un lupo di carta (il Predellino).

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