Politica

Il grande bavaglio cinese

L’abilità secolare dei cinesi nel costruire barriere colossali e invalicabili non sarebbe pienamente comprensibile solo con lo studio delle tecniche architettoniche e ingegneristiche che permisero loro nel III secolo a.C. di innalzare l’arcinota Muraglia Cinese. Da qualche decennio, infatti, le autorità governative si stanno scervellando per erigere una barriera di censura che risulti la più invalicabile possibile. Eppure, come secoli prima i Mongoli riuscivano a invadere i territori protetti dai quasi 9000 km di fortificazioni, facendo leva sulle porte di accesso che, necessariamente, erano state predisposte, così oggi blogger e internauti tentano di valicare le soglie di permessività concesse alla divulgazione informativa dalla Repubblica Popolare Cinese.
Attenzione, però! Perché emerge paradossalmente un altro aspetto fondamentale dal parallelismo poc’anzi effettuato: se gli invasori colti nel sacco automaticamente diventavano prigionieri di guerra, nel 2010 anche i giornalisti beccati a commemorare l’anniversario degli eventi di Piazza Tianamen o a diffondere superstizioni “feudali” (così prevede infatti un articolo della Legge sulla sicurezza e la protezione dei media in vigore dal 1997) rischiano la prigione. Insomma, pare proprio che la storia sia destinata a ripetersi, anche se in un settore totalmente diverso.
Il funzionamento dei machiavellici congegni di censura, che hanno causato di recente la rottura con Google, è affidato a una rete di agenzie governative che fa capo al Dipartimento Centrale per la Propaganda del Partito Comunista (CPD), il quale svolge un ruolo di coordinamento, assicurandosi che i contenuti delle notizie diffuse rimangano conformi alla dottrina del partito. Le direttive promananti da quest’organo restringono la trattazione di argomenti politicamente sensibili, come disastri ambientali, le relazioni con il Tibet, quelle con Taiwan o l’insorgenza di malcontenti interni.
L’antinomia più folle di tutte risiede in ciò che la classe dirigente del paese, ovviamente, non fa affidamento sulla stampa cosiddetta “libera”. Per colmare, dunque, un tale gap informativo, ecco nascere a macchia d’olio una serie di agenzie stampa deputate a diffondere notizie, classificate come riservate, ad un pubblico ristretto, vale a dire i maggiori funzionari statali. La più importante di queste è la Xinhua, dai cui bollettini il presidente Hu Jintao in persona ha potuto apprendere ex novo il verificarsi di una serie di tumulti etnici nella regione dello Xinjang, per poi farvi un viaggio in modo da placare i dissidi.
Poco male, dunque, se i giovani cinesi non potranno iscriversi su Facebook, scopiazzare informazioni da Wikipedia o imparare l’inglese da BBC News. L’assurdità del Grande Bavaglio si manifesta, invece, nelle problematiche gravi che ne derivano, nonostante negli ultimi tempi, specialmente dopo le Olimpiadi del 2008, sembrerebbero essersi allentate lievemente le cinghie. Tanto per fare un esempio, l’epidemia della SARS avrebbe causato certamente molte meno vittime se i leader cinesi avessero autorizzato la diffusione immediata della notizia. Le pratiche di censura, peraltro, sono solo un blando palliativo contro le insurrezioni. Neanche il Grande Bavaglio riuscirebbe ad arrestare i parossismi di un malcontento sviluppatosi latentemente, fallendo nel tentativo infausto di mantenere un regime che la gente non vorrebbe più.
Un ultimo dato rimane da analizzare: esiste un’organizzazione, chiamata Reporters Without Borders, che pubblica annualmente una classifica dei paesi secondo il livello di libertà di stampa. Non stupisce il fatto che la Cina sia 168esima su 175. E l’Italia? Il suo 49esimo posto, con tanto di annessa freccettina in salita, ci fa ancor di più impensierire, se ci si rende conto di trovarsi persino dopo il Ghana, il Suriname o la Namibia!

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