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Cassazione: la sentenza Edu sul caso Contrada non può avere applicazione generale

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La sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha portato all’annullamento della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa di Bruno Contrada non sarà applicabile a casi analoghi. È quanto si legge nella sentenza 36505 della Corte di Cassazione, depositata ieri.

Bruno Contrada, ex capo della squadra mobile di Palermo giunto poi ai piani alti delle dirigenze dell’intelligence, era stato condannato in via definitiva nel 2007, grazie alle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia. Secondo l’accusa aveva favorito la mafia siciliana giovandosi della posizione chiave ricoperta nelle forze dell'ordine. Avrebbe infatti «sistematicamente contribuito alle attività e alla realizzazione degli scopi criminali dell'associazione mafiosa "Cosa Nostra"» fornendo ad alcuni associati «informazioni confidenziali concernenti le investigazioni e le operazioni di polizia in corso» contro alcuni di loro. La pena di Contrada si era conclusa nel 2012, dopo aver passato quattro anni in carcere e quattro ai domiciliari.

Contrada, nato a Napoli nel ’31, fu poliziotto sin da quando compì 27 anni. Nel 1973 ricevette l’incarico di direzione della squadra mobile del capoluogo siciliano, schierandosi nella lotta al crimine organizzato fino al 1982, quando entrò nel SISDE. Le dichiarazioni di alcuni “pentiti” come Gaspare Mutolo e Tommaso Buscetta portarono gli inquirenti a ritenerlo colpevole del reato ascritto. Secondo la difesa, tuttavia, le dichiarazioni degli ex mafiosi erano una sorta di vendetta nei confronti dell’attività investigativa e di polizia di Contrada, osteggiata anche da altri membri delle squadre che lavoravano per estirpare cosa nostra.

Il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” non è concretamente presente nel nostro codice penale: è frutto di una organizzazione giurisprudenziale che muta i caratteri da due figure diverse, quella di associazione mafiosa e quella di concorso esterno nel reato.

Di qui la considerazione dei giudici di Strasburgo, che hanno ritenuto il reato frutto di una evoluzione giurisprudenziale che però non si era ancora consolidata nel momento in cui si svolgevano i fatti, dal ’79 all’88. Di conseguenza la non sufficiente chiarezza del capo d’imputazione non permetteva a Contrada di conoscere la pena rischiata per il reato: questo viola l’art. 7 della Cedu sulla legalità della pena. Dunque la Corte ha deciso di condannare l’Italia e di ordinare l’annullamento della condanna. La sentenza di Strasburgo avrebbe potuto dare modo ad altri condannati di eccepire la suddetta violazione per le condotte messe in atto nello stesso periodo, prima della sentenza delle Sezioni unite “Demitry”, arrivata nel ’94.

Tuttavia secondo gli ermellini il parere della Corte Edu non può avere portata generale: la Suprema Corte ha infatti rigettato il ricorso presentato da un condannato che si trovava in analoga situazione. La motivazione data dal Palazzaccio è che la decisione di Strasburgo ha seguito nel nostro ordinamento in virtù dell’art. 46 della Cedu, sulla vincolatività del giudicato europeo, ma può avere effetti solo sul caso specifico oggetto della controversia

In effetti i principi affermati nel caso Contrada non possono diventare una regola applicabile a casi analoghi, in quanto il nostro sistema penale non lo permette. I giudici Edu avevano considerato il reato in questione come «di origine giurisprudenziale», un concetto però estraneo al nostro ordinamento: «l’affermazione si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale – scrivono gli ermellini – in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività». 

La lettura della decisione della Cassazione va affiancata a quella che già le Sezioni unite avevano preso nel 2005, con la sentenza n. 33478 sul modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Tale pronuncia non ammette dubbi sulle ragioni che rendono legittimo applicare nel sistema penale l’istituto concorsuale. Dunque i giudici del Palazzaccio non hanno creato una nuova fattispecie incriminatrice, né il reato è frutto di una congettura giurisprudenziale: la figura è il risultato di una ricostruzione sistematica e armonica del nostro ordinamento. Il principio – per ora fissato – è dunque quello che la responsabilità penale per concorso esterno in associazione mafiosa viene in rilievo quando il concorrente è consapevole di dare il suo apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, consapevole inoltre degli obiettivi e della sua struttura e a prescindere da una sua adesione formale alla stessa.

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