Giustizia Quotidiana

Ciancimino, pentitismo e dintorni. Un po’ di cautela!

Massimo-Ciancimino
Scritto da vocealta

Massimo-CianciminoL’annosa questione del pentitismo e dell’uso dei collaboratori di giustizia nella lotta alla criminalità organizzata si riaffaccia prepotentemente alla ribalta in seguito all’arresto di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo contiguo a Cosa Nostra e oggi dispensatore di rivelazioni sulla “trattativa” che vi sarebbe stata fra Stato e Mafia, e le accuse di un altro pentito eccellente, Giovanni Brusca, lanciate all’indirizzo di diversi esponenti politici. Anche “A voce alta” ha dato risalto alla questione, pubblicando due interventi su Il Foglio, firmati Giuliano Ferrara e Mauro Mellini, ambedue molto critici verso un preteso uso “politico” dei pentiti.

Nel doveroso rispetto dell’operato degli uffici giudiziari impegnati a valutare e a utilizzare le collaborazioni di Ciancimino e Brusca, mi vien fatto di osservare, banalmente, che, su questa materia estremamente spinosa e delicata, sarebbe buona norma osservare, nell’esprimere giudizi o commenti, una cautela quasi pari a quella cui sono tenute le autorità giudiziarie nel soppesare l’affidabilità del collaboratore di giustizia.

Non scendo nel merito delle singole vicende, proprio in virtù di questa norma di cautela e buonsenso che ritengo sarebbe giusto rispettare. Ma secondo me la questione va vista in tutte le sue angolature, per poterne trarre –ove mai sia possibile- conclusioni generali. Dico “ove mai sia possibile” perché, qui come altrove, ritengo sia cattiva consigliera la tendenza a trarre, da singole vicende, convincimenti apodittici e unilaterali su colpe e torti di un’intera categoria di operatori del diritto.

Che il pentito sia soggetto di cui “diffidare”, prima di utilizzarne le dichiarazioni, è esperienza comune, ed anzi tale dato ineludibile è posto a base della normativa attualmente vigente in materia: una normativa approvata nel 2001 con consenso bipartisan, sotto un governo di centrosinistra, e che è stata lungamente vituperata come legge-vergogna in quanto giudicata in grado di devitalizzare il fenomeno del pentitismo e i risultati che esso ha, comunque, consentito di raggiungere.

Sta di fatto che, anche se i vantaggi correlati allo status di collaboratore sono stati ridimensionati dalla legge del 2001, ben difficilmente il pentito decide di collaborare per illuminazione dello Spirito Santo, o perché folgorato sulla via di Damasco. Può trattarsi per lo più di una decisione di comodo, o di calcolo, raramente di vera e propria resipiscenza. Ma questo è cosa nota. Così come è noto –e chi si appresta a “gestire” un pentito lo mette in conto- che l’aspirante collaboratore, tenuto a rivelare ciò che sa entro 180 giorni, spesso ha la tendenza a fare un uso strumentale delle sue dichiarazioni, accreditandosi all’inizio come utile e affidabile strumento di investigazione e di riscontro, per poi magari –una volta conseguita la fiducia dei suoi referenti istituzionali- cominciare a raccontare talvolta mezze verità, o autentiche menzogne, fino a “portare” in alcuni casi le indagini verso destinazioni che sono funzionali ai suoi disegni, oppure fino a sfruttare le agevolazioni in qualche modo connesse al programma di collaborazione per poter compiere o agevolare attività delittuose.

In certi contesti territoriali, poi, l’utilizzo dei pentiti è, più che altrove, un vero e proprio campo minato: in Calabria, ad esempio, a causa della ben nota connotazione familistica delle cosche e dei vincoli di sangue che legano gli affiliati, i casi di collaborazione con la giustizia sono molto meno numerosi che altrove. E, nei rari casi in cui si verificano (riferiti di solito a personaggi di secondo piano nell’organigramma della ‘ndrangheta), capita abbastanza spesso che il pentito, dopo iniziali rivelazioni utili alle indagini e debitamente riscontrate, cominci a sfruttare la sua posizione per perseguire finalità criminose; che, una volta scoperte, determinano in linea di massima il venir meno della credibilità del pentito e minano alla radice anche le propalazioni che si erano rivelate fondate. La casistica di processi nati o alimentati da dichiarazioni di pentiti la cui affidabilità è venuta meno in corso d’opera, e che sono franati sotto il peso della sopravvenuta inattendibilità del collaboratore, è piuttosto nutrita.

In diversa misura, questo è un rischio che esiste in tutti i casi in cui un processo si fonda in misura rilevante sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. E anche in altre realtà territoriali non mancano i casi in cui l’inaffidabilità del pentito, manifestatasi nel tempo, ha fatto naufragare importanti procedimenti.

Se questa è la situazione, occorre trarne qualche logica conseguenza.

È imperativo (anche se in concreto è tutt’altro che facile), per le autorità giudiziarie che utilizzano le dichiarazioni di un pentito, agire con il massimo scrupolo, senza mai trascurare la possibilità che la collaborazione subisca battute d’arresto o diventi poco credibile, e quindi cercando quanto più possibile di corroborare il tessuto probatorio da portare a giudizio con altre fonti di prova solide e sicure, che consentano alle acquisizioni d’indagine di reggere al vaglio processuale; e questo soprattutto là dove la posta in gioco è particolarmente alta, per la natura degli interessi criminali e del contesto mafioso indagato, o per la qualità dei soggetti coinvolti.

È parimenti importante desistere dall’utilizzare collaborazioni che, per fatti oggettivi e riscontrati, si dimostrino inaffidabili; e ciò non solo in funzione del singolo processo, ma anche e soprattutto nella prospettiva di ottenere, in futuro, collaborazioni più consapevoli e meno soggette a rischio di fallimento; e di stornare i sospetti o le critiche, talvolta semplicistiche talaltra interessate, di un possibile uso “politico” dei pentiti.

Ma non può sottacersi che queste ultime critiche, rivolte in generale al fenomeno del pentitismo o –peggio- protese ad additarlo come uno strumento di potere o di azione politica da parte della magistratura (addirittura indicata come “il partito dei magistrati”), peccano di irresponsabilità e di superficialità: sarebbe già doveroso avere elementi concreti, e conoscere le carte, per censurare con un minimo di fondamento la gestione di un singolo pentito da parte di un singolo ufficio giudiziario; se poi si pretende di estrapolare dalla singola vicenda addirittura il teorema dell’uso strumentale dei pentiti in generale da parte della magistratura in generale, per di più con scopi politici, si esce davvero dal seminato; non solo perché in tal modo si trascura completamente di considerare i numerosi casi in cui l’ausilio dei pentiti ha condotto i Tribunali e le Corti di assise a infliggere condanne poi divenute definitive a importanti esponenti di organizzazioni mafiose; ma altresì perché si attizza, senza alcuna giustificazione che non sia quella della ricerca dello scontro istituzionale, la bagarre fra magistratura e politica, che costituisce già ora un fenomeno patologico altamente pernicioso per il nostro sistema.

* magistrato

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