Giustizia Quotidiana

Caso Ciancimino, l’opinione di Giuliano Ferrara

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Scritto da vocealta

interrogatorio-massimo-ciancimino_copy_1Dietro il caso Ciancimino Jr., che con l’inchiesta responsabilmente decisa dal Consiglio superiore della magistratura è diventato non più una nostra solitaria denuncia ma uno scandalo di stato, non c’è solo un conflitto opaco tra procure, di per sé già grave. C’è molto altro.

Primo. La leggerezza con cui si assumono dichiarazioni d’accusa. Il presidente della Repubblica, in un suo discorso ufficiale in tempi recenti, aveva messo in guardia: oltre alla riservatezza, una buona indagine, specie se si inoltri nel sentiero delicato dei rapporti fra giustizia e politica, deve procedere con una sana cautela e una grande capacità di accertamento e valutazione del quadro indiziario che si prospetta davanti al magistrato. La gestione da parte dei pm Antonio Ingroia, Nino De Matteo e altri del dichiarante Ciancimino Jr. è stata, dal 7 aprile del 2008 al 19 aprile del 2011, giorno del suo arresto per calunnia e truffa pluriaggravata, esattamente l’opposto. L’obbligatorietà dell’azione penale può fare da schermo solo fino a un certo punto. Il pm deve valutare quel che sta facendo, deve preservare la fonte che gestisce dal diventare un’icona, dall’acquisire un ruolo maligno di teste d’accusa universale e inverificabile al cospetto dell’opinione pubblica, nei gangli decisivi, radiotelevisivi, del sistema dell’informazione. Deve evitare il circo mediatico- giudiziario. Il figliolo di don Vito, invece, per quasi tre anni è stato promosso a questa parte di scena intrinsecamente politica, con una gestione delle sue dichiarazioni che non ha mai virato verso la prudenza e la responsabilità. Più diceva cose inverificabili e inverificate, più spericolato era nelle accuse, più i pm gli attribuivano il carisma pubblico del cercatore e testimone di verità, una specie di nuovo Buscetta, ma non pentito, non regolato dalla legge sulla collaborazione di giustizia, e testimone de relato capace di sputtanare mezza Repubblica (il capo del governo, politici, militari, capi dei servizi, altri magistrati) con carte falsificate e a nome di un padre morto, senza alcuna assunzione di colpe personali, senza alcun prezzo da pagare e con un mondo di impunità e di epica fama da guadagnare. Cancellata la precedente condanna per riciclaggio e indirettamente delegittimati i magistrati che avevano proceduto contro di lui. Allontanata la prospettiva di un esproprio del patrimonio accumulato dal padre.

Secondo. Il Csm valuterà le circostanze dell’arresto, avvenuto da parte della procura di Palermo in circostanze di aspra competizione procedurale con quella di Caltanissetta, che aveva invocato una misura di prudenza nella gestione di un simile dichiarante. Ma per far questo dovrà appurare tutto sulla gestione della deposizione pubblica, a rate, e sul carattere infamante in più direzioni dell’operazione imbastita dal calunniatore nella provvida disattenzione di chi avrebbe dovuto controllarlo. Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, recitando in tv la litania proposta da Roberto Saviano, aveva giustamente invocato l’ausilio alla verità che possono dare i dichiaranti e i pentiti, da incentivare, ma si era dimenticato di aggiungere che alle loro accuse servono riscontri certi, e che una delazione pubblica infinita, smisurata, ad libitum, è un caso eminentemente antigiuridico di potenziale calunnia. Bisognerà pure capire come mai il generale Mario Mori, nel processo che lo riguarda, aveva portato tutte le necessarie dimostrazioni tecniche dalle quali si poteva desumere la falsificabilità estremamente facile delle carte autografe, ma inautentiche, del padre del dichiarante, don Vito. Eppure di questa dimostrazione, al culmine della diffamazione che aveva coinvolto il coordinatore dei servizi segreti, Gianni De Gennaro, la procura non aveva tenuto conto in tempi e modi compatibili con una severa gestione di un simile teste.

Terzo. Tutta la costruzione ideologica dei teoremi antistato di Ciancimino Jr. e di chi ne ha avallato l’attendibilità tra le toghe e nelle redazioni del circo, come ha notato un vecchio e autorevole garantista come Mario Mellini, è fondata su un paradosso: l’accusa allo stato di aver trattato con la mafia da parte di chi per primo ha legittimamente deciso di “entrare” nella mafia per corroderla dall’interno. Ora questa accusa, da parte di magistrati che si sentono in diritto di censurare lo stato e di mettere sotto accusa gli eroi della lotta alla mafia, è paradossale e sinistra, perché la magistratura, anche prima della legge sui pentiti, ha giustamente acquisito pezzi di mafia, le fonti che poi sono diventate i pentiti, per rendere più efficace il contrasto alla criminalità organizzata. Il pasticcio è grosso, è politico, è ideologico e culturale, è antigiuridico.Fin qui Ferrara.

Ma il Foglio aggiunge ulteriori elementi di riflessione.

Loro, i magistrati, ci avevano provato, eccome. Per evitare il contraccolpo di un’inchiesta del Csm avevano tentato in extremis una “paciata”, un patto di non belligeranza con il quale seppellire formalmente ogni contrasto e ogni rivalità. Ma il comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura non si è lasciato abbagliare e, dopo avere doverosamente informato il capo dello stato, ha deciso che la “indecorosa rissa” tra le procure di Palermo e Caltanissetta sul fermo di Massimo Ciancimino, il pataccaro accusato di calunnia, non poteva lasciare indifferente l’organo di autocontrollo. Da qui l’apertura di un dossier affidato alla prima commissione, quella competente a giudicare sulle incompatibilità ambientali, e al procuratore generale della Cassazione, cui spetterà il compito di rappresentare l’accusa nel procedimento disciplinare che, quasi certamente, si andrà ad aprire. Antonino Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che da quasi tre anni interroga e “gestisce” il figlio di don Vito, ostenta ottimismo. “Siamo tranquilli”, risponde ai giornalisti. E dietro questa affermazione non c’è solo la copertura di quel grande ombrello che è l’obbligatorietà dell’azione penale, un passepartout per ogni uso e per ogni forzatura del codice di procedura penale; ma anche la consapevolezza, garantita dalla consuetudine, che alla fin fine la commissione disciplinare di Palazzo dei Marescialli difficilmente va oltre l’ammonimento o la censura: “Cane non mangia cane”, si diceva una volta nei corridoi dei palazzi di giustizia.

Stavolta comunque l’iniziativa del Csm c’è ed è politicamente pesante. Perché dietro la decisione presa dal vice presidente Michele Vietti, dal procuratore generale e dal primo presidente della Cassazione, c’è il consenso di Giorgio Napolitano il quale, non a caso, in questi ultimi mesi, ha insistito sul giusto equilibrio dei poteri: da un lato la politica non deve aggredire la magistratura; ma la magistratura non deve utilizzare, in inchieste delicate e politicamente sensibili, mezzi borderline per affermare un’idea di legalità che non sia fondata su una valutazione approfondita degli indizi.

La gestione di Massimo Ciancimino è stata spesso caratterizzata da fervore ideologico e trascuratezza. Trasformato dal circo mediatico-giudiziario in una “icona antimafia” cui era consentito mascariare chiunque (premetteva sempre, per non incorrere in una querela, di riferire come un ventriloquo parole e pensieri del padre morto) il figlio di don Vito, che fu sindaco mafioso di Palermo e boss in doppiopetto dei sanguinari “corleonesi”, ha accusato di nefandezze rappresentanti della politica e uomini delle istituzioni, i magistrati che gli avevano sequestrato il patrimonio e gli investigatori che lo avevano incastrato per il reato di riciclaggio. Sino a coinvolgere, con una tecnica di copia e incolla denunciata in dibattimento da una delle sue vittime, il generale Mori, un funzionario cardine come il coordinatore dell’inelligence Gianni De Gennaro.

Ma quella è stata solo la patacca finale. Che lo ha trascinato in carcere per calunnia e che, al tempo stesso, ha finito per spiazzare non solo i magistrati che gli avevano dato fiato, ma anche i giornalisti che sulle sue panzane avevano costruito carriere, inchieste e aggressioni: ora contro Berlusconi, ora contro Dell’Utri, ora contro l’ex ministro Nicola Mancino, ora contro un eroe dell’antimafia vera, cioè Mario Mori, il generale dei Ros che nel dicembre del 1993 catturò il più spietato dei “corleonesi”, il capo dei capi Salvatore Riina. L’imbarazzo dei giornalisti si coglie anche oggi e per capirne la portata basta citare Repubblica che, nella cronaca di ieri, tenta di trasformare il pupo in un “puparo”: così luciferino e così mafioso da piegare alle sue trame fior di inquirenti e inquisitori. L’imbarazzo dei magistrati si coglie invece in quella cappa di silenzio che, all’improvviso, ha avvolto non solo la procura di Palermo, alla quale faceva riferimento il giovane pataccaro, ma anche la procura di Caltanissetta che, quando si è vista scippare l’inchiesta sulle calunnie di Ciancimino con conseguente fermo e interrogatorio “in esclusiva”, ha accusato apertamente i colleghi di Palermo di slealtà.

La polemica, come si sa, è finita sui giornali, con interviste contrapposte e animate da una tale determinazione che alla resa dei conti, volenti o nolenti, alcuni dei pm in lite hanno finito per parlare delle inchieste che ruotano attorno a “Massimuccio”. E questo il Csm non poteva sopportarlo in quanto, al di là di ogni codice di autoregolamentazione, c’è la sacralità del segreto istruttorio che teoricamente impone ai titolari di un’inchiesta di non esprimere mai in pubblico alcuna valutazione. La violazione del segreto è l’esercizio più diffuso soprattutto tra quei magistrati che mantengono un filo diretto con alcuni giornali: il commercio sottobanco delle intercettazioni telefoniche sta lì a dimostrarlo. Ma è un esercizio difficilmente riconducibile a una responsabilità personale. Le interviste rilasciate sul caso Ciancimino sono invece a portata di mano, con nome e cognome, e il Csm non può sottrarsi al compito di verificare se, tra le pieghe di quelle domande e di quelle risposte, sia stata fatta un’impropria valutazione di fatti e circostanze ancora in via di accertamento.

Il dossier aperto dalla presidenza del Consiglio superiore – così si legge nel comunicato ufficiale – è circoscritto al fermo del “signor Massimo Ciancimino”. Vuole cioè esaminare i comportamenti dei magistrati relativamente a quella vicenda specifica. E la storia del fermo, avvenuto in quel di Parma mentre il pataccaro marciava tranquillo con la famiglia e la scorta verso Saint-Tropez, presenta non pochi punti oscuri. Intanto, come testimoniano agenzie di stampa e siti web, gli è stato lasciato il telefonino anche dopo la notifica del provvedimento: tanto che il superteste, chiamiamolo ancora così, si è messo subito in contatto dalla questura con i giornalisti amici, rassicurandoli che nel giro di poche ore sarebbe stato tutto chiarito. Ma l’interrogativo che più incuriosisce i membri del Csm è l’atteggiamento tenuto dalla procura palermitana quando è venuta fuori la storia dei tredici candelotti di dinamite ben nascosti da Massimuccio nel giardino di casa con micce e detonatori. Una potenza di fuoco straordinaria e in piena efficienza, capace di devastare i palazzi di tutta via Torrearsa. Polizia e magistrati, che pure avevano perquisito già due volte la casa senza alcun risultato, hanno trovato il tritolo su indicazione dello stesso Ciancimino il quale credeva magari di accreditarsi così come vittima di un’ipotetica minaccia di attentato. Nel confessare la detenzione degli ordigni, il pataccaro ha detto di averli ricevuti alcuni giorni prima e di averli nascosti lì, senza parlarne con nessuno, per non allarmare la moglie e i familiari tutti.

Eppure, nonostante la certezza della prova – “la consapevolezza assorbe il reato”, sostiene la giurisprudenza – i suoi procuratori di riferimento, prima hanno riflettuto a lungo se aprire un fascicolo per minacce o per detenzione e poi, pur avendo deciso per la detenzione, hanno stabilito – nonostante la fattispecie del reato e la prova incontrovertibile del ritrovamento – di non chiedere il processo con rito immediato. La prassi e la giurisprudenza, sulla detenzione delle armi, non offrono spazio al dubbio. Se un poveraccio viene trovato con una scacciacani o con una pistola priva di cartucce o di grilletto, viene subito tradotto in carcere e processato per direttissima in quanto la prova è, come si dice, “in re ipsa”. Per il giovane Ciancimino no. I pm che lo gestiscono da tre anni e che il 10 maggio lo porteranno in aula come testimone chiave del processo contro il generale Mori e della presunta trattativa fra mafia e stato, non hanno fretta: il giudizio sulla dinamite che ha rischiato di mandare in frantumi tre palazzi, e di compiere un’altra strage di mafia, può comodamente attendere. La procedura di un certo rito palermitano ne dà facoltà.

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