Giustizia Quotidiana

Ancora sul caso Ciancimino

ciancimino
Scritto da vocealta

cianciminoDopo gli articoli a firma di Giuliano Ferrara e Giuseppe Pavich, sull’incredibile caso di Massimo Ciancimino A voce alta ripubblica un fondamentale articolo scritto per Panorama da Maurizio Tortorella.

Lo chiamavano «Trinità». Oppure «Oracolo Massimo». Soltanto cinque mesi fa, nel suo libro Nel labirinto degli dei, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia di lui aveva scritto che era «quasi un’icona dell’antimafia». Ora, come a volte capita ai falsi idoli, Massimo Ciancimino è caduto. Il figlio minore di Vito Ciancimino, il corleonese che fu sindaco di Palermo e morì nel 2002 con una condanna per mafia sulle spalle, è in cella: accusato di truffa e di calunnia aggravata nei confronti di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e oggi responsabile del Dipartimento informazioni per la sicurezza, cioè la struttura al vertice dei servizi segreti. E un giudice dice che «deve restare in carcere perché se rimesso in libertà potrebbe commettere reati, anche della stessa indole».

Così ora Ingroia ha un problema: «La credibilità di Ciancimino» dice «è minata, l’accusa di calunnia aggravata non è acqua fresca. Ma è vero che sue dichiarazioni stanno in piedi a prescindere dalla sua attendibilità generica e che sono riscontrate da elementi specifici». La stessa contorsione logica svela quanto sia disperata la situazione in cui insiste a ficcarsi il magistrato.

Dal 7 aprile 2008, quando inizia ufficialmente a collaborare con la procura siciliana (dopo un’intervista pubblicata su Panorama del 19 dicembre 2007), l’Oracolo Massimo prova a riscrivere gran parte della storia d’Italia. Testimonia su tutto: sul caso Moro, su Ustica, sull’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sui miliardi di lire che le cosche avrebbero investito nell’impresa berlusconiana di Milano 2 e in Forza Italia. E sulle stragi di mafia del 1992-93, nonché sulla trattativa che, per farle cessare, si sarebbe aperta tra pezzi dello Stato e Cosa nostra.

È confuso e contraddittorio, Ciancimino jr. Del resto, lo è perfino nei sentimenti: ha voluto chiamare Vito Andrea il figlio nato nel 2004, ma tre anni dopo già dice di volergli cambiare il cognome per allontanarlo dalla «maledizione» di quel nonno tanto ingombrante al quale lo aveva legato per sempre.

Intelligente, tattico e paziente solo come alcuni siciliani sanno essere, Ingroia ha capito che lo scopo di «Massimuzzo» è salvare il tesoro del padre: centinaia di milioni di euro che non si sa dove siano finiti, per il cui riciclaggio nel 2009 è stato già condannato in appello (con un forte «sconto» per la collaborazione) a 3 anni e 4 mesi.

Ma il magistrato non fa scambi. Interroga l’Oracolo Massimo, sperando che le sue parole e i suoi documenti possano portarlo lontano. Come ha scritto nella prefazione al libro Il quarto livello di Maurizio Torrealta, cui Ciancimino ha collaborato e che è uscito tre giorni prima che venisse arrestato, Ingroia punta a «quella zona buia dove la ragion di stato imperversa e dove la giustizia incontra limiti e contenimenti».

Oggi, però, il pm deve prendere un po’ di distanze. Dichiara che il suo ufficio ha sempre «trattato con estrema cautela le dichiarazioni di questa persona ». Dice addirittura, con l’aria angelica: «Non gli abbiamo mai dato credito». È costretto a farlo, di fronte all’evidenza di quel foglio dove il nome di De Gennaro è stato grossolanamente falsificato. Si scopre solo ora, peraltro, che non esiste nemmeno la famosa cassetta di sicurezza in Liechtenstein, quella alla quale Massimo ha sempre detto di attingere i suoi clamorosi documenti.

Per tre anni, però, la procura di Palermo ha offerto patenti di attendibilità alla foga testimoniale di Ciancimino jr. Un po’ ancora insiste, sembra volersi aggrappare al suo oracolo: per salvare il salvabile, adesso ipotizza l’intervento di un manovratore, di un «puparo». E la stessa scelta di chiedere l’arresto di Ciancimino jr, paradossalmente, è difensiva: la procura di Palermo ha agito prima che lo facesse quella di Caltanissetta, assai meno propensa a credere a Massimuzzo, così è riuscita a precludere al procuratore nisseno Sergio Lari la presenza all’interrogatorio dell’arrestato. Tanto che il vice di Lari, Nico Gozzo, è sbottato: «Lo scontro c’è, inutile nasconderlo». Si parla già di un conflitto di competenza davanti alla Cassazione.

A Caltanissetta, Ciancimino da quattro mesi è indagato per calunnia, e proprio per avere indicato in De Gennaro il misterioso «signor Franco» dei servizi: l’uomo che dal 1971 avrebbe accompagnato «don Vito» nei tortuosi percorsi dove la mafia s’incontrava con lo Stato e che nella primavera-estate 1992, prima della morte di Paolo Borsellino, avrebbe fatto la spola nella trattativa per fermare le stragi. Il 3 dicembre 2010, quando esce la notizia che è iscritto al registro degli indagati, Ingroia protesta con forza: «È ben strano che a essere messo sotto inchiesta sia prima l’accusatore che l’accusato». E il 4 aggiunge: «Ciancimino è un personaggio sui generis. La valutazione delle sue dichiarazioni va fatta caso per caso. Ci sono cose che ha visto e saputo direttamente, altre che ha appreso indirettamente: bisogna tenerne conto».

Nulla, però, obietta lo stesso Ingroia al fatto che in passato l’accusatore (al quale, per individuare l’uomo dei misteri, la procura ha dato addirittura la facoltà di scorrere molti elenchi di fotografie degli 007 dei servizi segreti, anche sotto copertura: una pratica quanto meno rischiosa) abbia raccontato due verità in tutto contraddittorie con l’indicazione di De Gennaro. Ciancimino ha detto che il rapporto tra il «signor Franco» e suo padre «si era consolidato al tempo in cui ministro dell’Interno era Franco Restivo»; ma Restivo era stato al Viminale dal 1968 al 1972, quando De Gennaro era solo uno studente universitario. Poi ha rivelato che il giorno della morte del padre, il 19 novembre 2002, il signor Franco gli aveva recapitato un messaggio del boss Bernardo Provenzano: in quel momento, però, De Gennaro era già il riconoscibile capo della polizia.

Ma Ciancimino jr è abituato alle topiche. Nel maggio 2010 individua il signor Franco in una foto pubblicata su un vecchio numero di Parioli Pocket, un periodico romano: lo 007 dei misteri è lì, in una cerimonia per la presentazione di un’auto in Vaticano, alle spalle di Gianni Letta e di Bruno Vespa (che vengono subito sospettati di chissà quali collusioni). Dopo tre giorni di titoloni sui giornali, gli agenti spediti da Palermo appurano che il «signor Franco» è solo un ignaro e rispettabilissimo dirigente d’azienda.

Obiettivamente, è difficile prendere sul serio l’Oracolo Massimo. Per tre anni non ha fatto che parlare e depositare documenti e si è trattato sempre di parole riferite e di carte altrui: del padre, oppure di Provenzano, impegnato nella presunta trattativa con lo Stato. Anche gli appunti che lo proverebbero, dalla lista delle richieste di Totò Riina per fermare le stragi (il famoso «papello») fino ai bigliettini scritti a macchina e indirizzati da Provenzano a «don Vito» (i «pizzini»), sono fotocopie. In nessun altro tribunale sarebbero state prese per buone.

Invece la procura di Palermo ha sempre trovato il mezzo per giustificare, avallare, proteggere. Già alla fine dell’ottobre 2010 la polizia scientifica ha stabilito che il lessico e i caratteri della macchina per scrivere usata nei pizzini di Provenzano portati da Ciancimino sono del tutto incoerenti con quelli sicuramente originali del boss, sequestrati in altre occasioni e scritti con sette apparecchi diversi. Massimo sostiene che i pizzini risalgano a un periodo tra il 1992 e il 2001, ma i periti manifestano altri dubbi: essendo il prodotto di un’unica macchina per scrivere, nel corso degli anni l’usura avrebbe dovuto provocare qualche alterazione nei caratteri, che invece sono stranamente stabili. È poi inverosimile che il boss, abituato a rispondere agli interlocutori dopo tempo e sempre per interposta persona, solo nel caso di Massimo gli desse immediati appuntamenti per le repliche a don Vito, aspettandolo a bordo di un’utilitaria nel centro di Palermo. Eppure in quello stesso ottobre 2010, invece di accusare Massimo di autocalunnia, Ingroia e i suoi pm lo indagano per concorso esterno in associazione mafiosa, così implicitamente dichiarandolo attendibile.

Prima che scoppiasse il caso De Gennaro, il 28 settembre 2010 anche l’ex generale del Ros Mario Mori aveva contestato l’autenticità di altre carte depositate dall’Oracolo Massimo. Sotto processo a Palermo per favoreggiamento alla mafia, in quanto la procura ipotizza abbia evitato la cattura di Provenzano, l’ex direttore del Sisde ha mostrato su un grande schermo, in aula, come una lettera di minacce indirizzata dal boss a Marcello Dell’Utri fosse stata manipolata con l’aggiunta di una scritta, di pugno di don Vito, «e p.c. (per conoscenza, ndr) al presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi». Quella scritta, ha evidenziato Mori, era stata estratta da un altro foglio col programma Photoshop.

Mori è il primo ad accusare Ciancimino di contraffazioni al computer. Ma non è l’ultimo. Il 12 ottobre 2010 un altro «collage» di carte dove si affiancano strani affari, mafia e Berlusconi viene smascherato in udienza dalla polizia scientifica. Il collage è suggestivo: accanto ad alcuni appunti intitolati «Rapporti Dell’Utri» e dopo un riferimento a «Milano-Gelli-Calvi», nel documento compaiono cinque parole scritte da don Vito: «Berlusconi-Ciancimino» e, più in basso, «Milano-truffa-assicurazioni ». Per i periti, i riferimenti al premier sono stati estratti e copiati da altri documenti.

Di fronte alla contestazione, Massimuzzo si giustifica dicendo di avere unito due fogli come «ausilio alla memoria»: servivano come appunto in un’udienza. Alla procura tanto basta. Anche oggi, su questi precedenti imbarazzanti, Ingroia insiste a proteggere il teste: «Ha già ammesso e spiegato». Gli dà man forte il suo capo, Francesco Messineo: «In questo momento» sostiene «non ci risulta ci siano altri documenti falsificati, ma non lo possiamo escludere. visto che la scientifica analizza i fogli che Ciancimino ci ha dato in vari periodi».

Di certo è anche per queste disavventure se i giudici del processo di secondo grado contro Dell’Utri, a Palermo, non l’hanno nemmeno voluto ascoltare. Per descrivere l’inutilità della sua testimonianza, nella primavera del 2010 la corte d’appello impiega una devastante sequenza di aggettivi: è «contraddittoria, generica, incongrua, priva di riscontri». Anche nelle motivazioni della condanna di Dell’Utri, 641 pagine pubblicate il 19 novembre 2010, i giudici infilzano Ciancimino jr con dubbi grandi come una casa, criticandone le testimonianze a singhiozzo: «L’incontestabile progressione accusatoria che caratterizza, con ogni evidenza, le sue dichiarazioni sul conto dell’imputato Dell’Utri non può che irrimediabilmente refluire in maniera oltremodo negativa sull’attendibilità e sulla credibilità».

Sei giorni dopo scatta la solidarietà di Annozero, che a partire dal 2009 ha più volte dato voce alle accuse di Ciancimino e in maggio ha addirittura «lanciato» con un’efficacissima fiction il libro Don Vito, la storia di suo

padre e la base delle rivelazioni sulla trattativa, che Massimuzzo ha scritto con il giornalista Francesco La Licata. La puntata del 25 novembre s’intitola «Onore e pregiudizio»: l’onore è quello mafioso, attribuito a Dell’Utri; il pregiudizio, invece, è quello negativo che ha «silenziato» l’Oracolo Massimo. Ciancimino in studio parla e si difende senza il minimo contraddittorio: «Lo Stato non può processare se stesso» lamenta. «Sono attaccato a 360 gradi solo perché racconto verità…». E Michele Santoro gli conclude la frase: «… che sono scomode per tutti».

Ben altre verità, anche più scomode ma subito dimenticate, emergono quello stesso novembre 2010. Ciancimino jr è nella sua casa di Bologna, scortato come sempre dagli agenti messi a sua disposizione dalla procura di Palermo, ma inopinatamente si libera degli angeli custodi (e qualcuno forse dovrebbe darne conto, così come si dovrebbe capire in quale modo, qualche settimana fa, un pacco contenente 13 candelotti di dinamite, 21 detonatori e alcuni metri di miccia abbia potuto superare il filtro di ogni protezione, come ha raccontato Ciancimino, ed essere recapitato nella sua abitazione di Palermo). Privo di controllo, il figlio di don Vito inforca la sua moto, fugge da Bologna e sgomma a Verona, dove tratta un singolare scambio fra assegni e contanti con Girolamo Strangi, un commercialista ritenuto vicino alla ‘ndrina calabrese dei Piromalli. L’uomo è indagato dalla procura di Reggio Calabria e il suo ufficio è pieno di cimici: così, anche Massimo finisce nelle intercettazioni.

Quel che racconta è sconvolgente. Dice di essere in grado di verificare l’esistenza di qualsiasi indagine grazie alla banca dati dei magistrati di Palermo, di cui afferma di poter disporre a suo piacimento: «Io faccio quello che minchia voglio, là dentro… L’altra volta mi sono andato a vedere un file dove c’erano le barche da sequestrare». Poi, riferendosi alla puntata di Annozero cui ha appena partecipato, rivela quale sia la sua vera forza: «L’hai vista?» ride. «Sono un’icona, per loro! Se io dico: “Mi vogliono fottere con una minchiata, mi vogliono coinvolgere” e robe varie, loro gli dicono a quelli: guardate che è il nostro teste principale d’accusa su quel che è successo negli ultimi vent’anni, non ce lo screditate per una cazzata».

A questo punto, l’Oracolo Massimo è nudo. Il procuratore calabrese, Giuseppe Pignatone, invia i nastri a Palermo e a Caltanissetta. Ma quando l’intercettazione esce sul Corriere della sera, il 18 dicembre 2010, viene ridimensionata dalla procura di Ingroia: «È probabile» annota il Corriere «anzi è quasi certo, secondo gli stessi inquirenti, che quelle del figlio dell’ex sindaco mafioso siano millanterie per mostrare a un possibile socio in affari di essere poco meno che onnipotente». E nessuno indaga sulle «millanterie». Almeno quattro «salvataggi», quindi.

Una morale? Quando nel 1997 si scoprì che Baldassarre Di Maggio, pochi mesi dopo il suo arresto e il suo pentimento, avvenuti quattro anni prima, era tornato a San Giuseppe Jato e aveva ammazzato qualche vecchio compare, l’allora procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli ebbe a spiegare che quelli erano i rischi della «gestione dinamica dei pentiti». Ciancimino non è nemmeno un pentito, è un testimone. Ma di gestioni «dinamiche» come la sua, a Palermo, se ne sono viste poche. Misteri di Trinità.

Riguardo l'autore

vocealta