Giustizia Quotidiana

Prescrizione breve, il parere del Csm

Dopo le opinioni anticipate ieri da parte dei togati Cosimo Maria Ferri, Stefano Schirò (Magistratura indipendente) e Aniello Nappi (Movimento per la giustizia), riportiamo il parere espresso ieri dal Consiglio superiore della magistratura con 21 voti favorevoli e 4 contrari sulla cosiddetta “prescrizione breve”. 
La problematica affrontata presso la Camera dei Deputati con il DDL 3137 in tema di misure contro la durata indeterminata dei processi, a causa della sua rilevante e significativa ricaduta sui meccanismi processuali, è stata già oggetto di esame da parte del Consiglio Superiore della Magistratura in occasione del parere reso ai sensi dell’art. 10 della legge n. 195 del 1958 sul disegno di legge n. 1880/S con delibera del 14 dicembre 2009.
L’iter del disegno di legge successivo alla delibera consiliare è stato articolato e complesso. Dopo l’approvazione con significative modifiche da parte del Senato, si trova ora alla Camera dove sono stati apportati di rilevanti interventi che hanno modificato profondamente il testo originario.
Fra gli interventi di maggiore significato va innanzitutto espresso apprezzamento per la radicale riscrittura dell’articolo 4, che ha comportato l’eliminazione del meccanismo di estinzione dei processi a seguito del decorso dei termini di fase ivi stabiliti, sostituito da un meccanismo di segnalazione privo di ricadute negative dirette sul processo.
Sul punto si segnala che non emerge con chiarezza quale sia la finalità e la ricaduta della citata segnalazione al Ministro della giustizia ed al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, posto che non viene in evidenza alcuna ipotesi di illecito disciplinare specificamente richiamabile.
Va espresso, altresì, apprezzamento per l’eliminazione delle disposizioni transitorie contenute nell’art. 9 del testo originario, oggi soppresso, che avrebbero determinato la cancellazione automatica di un numero elevatissimo di processi in corso.
In entrambi i casi si tratta di modifiche a profili oggetto di specifica preoccupazione nella delibera del CSM già citata, che in tal modo riducono senza dubbio i rischi di ricadute negative dirette sul sistema giudiziario e sulla tutela dei diritti dei cittadini.
Suscita, invece, preoccupazioni l’emendamento che ha introdotto l’art. 3 del DDL, denominato “Modifiche al codice penale”, il quale interviene nuovamente sull’art. 161 del codice penale riducendo ulteriormente il termine di prescrizione dei reati, già ridotto nel 2005 con la legge 5 dicembre 2005 n. 251, portando l’aumento massimo del termine conseguente all’interruzione del decorso della prescrizione ad 1/6 – anziché all’attuale 1/4 – del limite di pena edittale, per gli imputati incensurati.
Va chiarito che tutto l’insieme della norma sugli effetti dell’interruzione della prescrizione resta sostanzialmente invariato, ad eccezione di un nuovo intervento di riduzione sul termine massimo di durata della prescrizione per i soli imputati incensurati per i quali lo stesso era già stato considerevolmente ridotto dalla l. n. 251/2005 (cd. legge Cirielli).
Già in occasione della delibera del 23.2.2005, riguardante “Problematiche concernenti le proposte di modifica legislativa dell’istituto di prescrizione così come attualmente regolato nel codice penale” in relazione all’esame della l. n. 251/2005 (cd. Legge Cirielli), è stato effettuato un monitoraggio sullo stato dei processi pendenti e sulle possibili conseguenze dell’applicazione delle norme del disegno di legge.
Sebbene risalente, la delibera citata restituiva una situazione di possibili ricadute di sistema decisamente rilevanti, ancorché assai differenziate in ordine alla natura dei reati coinvolti.
“Se si tiene conto della durata media di un processo di merito, precisava la delibera, si può ragionevolmente concludere che quasi tutti i processi per reati puniti con la pena della reclusione compresa nel massimo tra i cinque e i sei anni e la grande maggioranza di quelli per reati puniti con la pena della reclusione massima di otto anni sono destinati a sicura prescrizione.Non solo, ma una ricognizione effettuata recentemente dalla Corte di cassazione ha permesso di accertare che si situa attorno ai nove anni il tempo medio di durata dei processi per reati puniti con pena compresa fra cinque e otto anni che giungono al vaglio della stessa Corte: per la massima parte dei processi, dunque, il termine prescrizionale maturerebbe prima della sentenza definitiva, ma dopo la decisione di appello, e cioè in un contesto che comporta per il sistema giustizia il massimo spreco di energie. E’ evidente, dunque, che l’applicazione del nuovo regime ai processi in corso comporterà la vanificazione di gran parte del lavoro svolto dall’intero sistema giudiziario nel corso di alcuni anni”.
Allo stesso modo, è agevole pronosticare che l’impatto della modifica normativa da ultimo proposta sui processi in corso sarà notevole, atteggiandosi come una sostanziale amnistia, nonostante la limitazione proposta al secondo comma dell’art. 3, che comunque non vale ad impedire il prodursi degli effetti negativi nei gradi successivi al primo. A ciò deve aggiungersi la preoccupazione per gli effetti negativi, a regime, sul sistema penale indotti da una ulteriore riduzione dei termini di prescrizione inseriti per tutti i processi futuri, a causa della prevedibile inefficacia dell’azione penale per numerosi reati.
In proposito va segnalato che l’Italia è stata già raggiunta da una segnalazione negativa dell’Unione Europea proprio con riferimento alla durata eccessiva dei processi per corruzione con riferimento a termini troppo brevi di prescrizione che determinano frequentemente una ineluttabile estinzione di un così grave reato.
Occorre al riguardo chiarire che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha invero condannato l’Italia in relazione al diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata entro un termine ragionevole[1]. La Corte di Strasburgo ha considerato il tempo impiegato, nell’ambito dei giudizi celebrati in Italia, per esaminare il merito della causa ed ha affermato la responsabilità dello Stato discendente dalla violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione EDU. E la Corte ha pure posto a carico dello Stato italiano una liquidazione supplementare rispetto a quella riconosciuta dalle Corti d’Appello nel quadro della Legge Pinto, ritenendo che detta previsione non fornisca una riparazione equa del ritardo subito.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, così sinteticamente richiamata, va in direzione opposta rispetto alla proposta riduzione dei termini di prescrizione del reato che si risolve in un meccanismo che ostacola l’accertamento sul merito della questione dedotta in giudizio.
Invero, il diritto consacrato dall’art. 6 della Convenzione, e prima di essa dagli articoli 24 e 111 della nostra Costituzione, è anzitutto che il processo ci sia e che sia un processo che si concluda con una decisione di merito. In secondo luogo che sia un processo di durata ragionevole ed improntato agli altri principi descritti dalla norma costituzionale. Ciò che si chiede all’ordinamento italiano è, cioè, di trovare gli strumenti per accelerare lo svolgimento dei processi facilitando l’accertamento giudiziario, non certo di favorire l’espunzione dei reati prima ancora che ci sia una decisione nel merito.
Si osserva, inoltre, che le nuove norme proposte in tema di prescrizione appaiono confliggenti con le previsioni promananti da fonti sovranazionali di origine pattizia, recentemente recepite dallo Stato italiano. Ci si riferisce, in particolare, alla Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003[2]. La predetta Convezione è stata ratificata dall’Italia con Legge 3 agosto 2009, n. 116. L’art. 2 della citata Legge n. 116/2009 stabilisce invero espressamente che “Piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione” ONU contro la corruzione.
La Convenzione raccomanda il rafforzamento, da parte degli Stati firmatari, delle misure sostanziali e processuali volte a prevenire e combattere la corruzione in modo sempre più efficace. Non vi è dubbio, pertanto, che rientrano nell’ambito della Convenzione anche le figure di reato individuate dagli Stati aderenti al fine di contrastare il fenomeno corruttivo. Con riguardo all’Italia, vengono pertanto in rilievo i delitti contro la pubblica amministrazione di cui al Libro Secondo, Titolo II, del codice penale, delitti per i quali la pena edittale è, in numerosi casi, inferiore a dieci anni di reclusione e che perciò astrattamente rientrano nella previsione di modifica dei termini di prescrizione.
Tanto premesso, si osserva che l’art. 29 della Convenzione ONU contro la corruzione, stabilisce che “..ciascuno Stato Parte fissa, nell’ambito del proprio diritto interno, un lungo termine di prescrizione entro il quale i procedimenti possono essere avviati per uno dei reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione”. La previsione risente ovviamente dell’ambiente di common law in cui la Convenzione stessa è maturata ove l’esercizio dell’azione penale mediante l’instaurazione del giudizio preclude l’ulteriore corso della prescrizione del reato. Tanto chiarito è evidente che la ratio della disposizione sia quella di garantire l’effettiva celebrazione dei processi in materia di corruzione e non di favorirne l’estinzione per prescrizione.
Rafforza il convincimento rilevare che l’art. 30 della Convenzione in esame raccomanda agli Stati di adottare le misure necessarie al fine di “ricercare, perseguire e giudicare effettivamente” i responsabili di fatti corruttivi (art. 30, comma II). L’articolo in commento invita poi gli Stati ad adoperarsi affinché i relativi procedimenti giudiziari si svolgano in modo tale da “ottimizzare l’efficacia di misure di individuazione e di repressione di tale reati” (art. 30, comma 3).
Orbene, la previsione della estinzione anticipata del reato – che ben può riguardare anche i delitti di corruzione, come sopra chiarito – quale effetto automatico derivante dal decorso di predeterminati brevi limiti temporali, sembra allora porsi in netto contrasto con i principi sanciti dalla richiamata Convenzione contro la corruzione, ai quali l’azione degli Stati firmatari dovrebbe ispirarsi.
Occorre poi soffermarsi su ulteriori elementi di natura sovranazionale che provengono da organismi operanti nell’ambito del Consiglio d’Europa, sia pure a livello non giurisdizionale.
Ci si riferisce al rapporto redatto dal Gruppo di Stati contro la corruzione che agisce nell’ambito del Consiglio d’Europa (GRECO)[3], che ha recentemente valutato le politiche anticorruzione poste in essere dall’Italia.
Il rapporto adottato il 2 luglio 2009 si sofferma sul dato relativo alla eccessiva durata dei processi, sottolineando il fatto che in Italia i processi per corruzione sovente non arrivano ad una decisione di merito, in considerazione del maturare del termine di prescrizione del reato, prima di una pronuncia definitiva. Nel Rapporto (PAR 54) si osserva che detta evenienza scardina l’efficienza e la credibilità del diritto penale, poiché in tali casi, pur in presenza di un forte quadro probatorio, il giudice deve pronunciare il non luogo a procedere per estinzione del reato. Ed il predetto rapporto si conclude con una raccomandazione all’Italia, ove si auspica l’individuazione di soluzioni che consentano di addivenire ad una pronuncia di merito, in un tempo ragionevole[4].
Un raffronto con i sistemi in vigore negli altri paesi relativamente alla prescrizione, dimostra come la nostra disciplina sia quasi unica in Europa e sia destinata a determinare inevitabilmente un gran numero di estinzione dei reati per prescrizione.
I sistemi penali dell’area Common law non conoscono un istituto paragonabile alla prescrizione del reato, mentre la Francia prevede un sistema di prescrizione assai lungo dopo qualsiasi atto interruttivo. Così anche, il sistema penale spagnolo e quello tedesco nel quale è previsto che il reato si prescrive con il decorso di un periodo di tempo pari al doppio del termine prescrizionale ordinario dopo l’avvio del processo.
Come è evidente, in tutti gli ordinamenti menzionati l’istituto della prescrizione ha come ragione d’essere il venir meno dell’interesse dello Stato a perseguire il reato per il decorso del tempo. Invece, nel sistema italiano, ancor più dopo la modifica normativa che si prospetta, la prescrizione sembra porsi quale regolatore della perseguibilità di alcune categorie di reati anche in relazione ai procedimenti pendenti.
L’intervento normativo in esame, infatti, riducendo ancora la prescrizione per molti reati, non potrebbe che determinare un ulteriore aumento delle prescrizioni dichiarate (attualmente circa 150.000 all’anno).
Esso finisce per costituire un ulteriore traguardo premiale che incentiva ulteriormente atteggiamenti dilatori e soprattutto allontana un impianto processuale finalizzato al rispetto dei principi della efficienza e della ragionevole durata del processo.
In conclusione deve osservarsi che permane nel testo del DDL l’idea che la prescrizione del reato possa fungere da sanzione della durata non ragionevole del processo. Come si è detto, la Convenzione europea e la giurisprudenza di Strasburgo, come ora l’art. 111 Cost., esigono che in tempi ragionevoli si pervenga a una pronuncia nel merito della controversia, non a una pronuncia di mero rito, come quella che consegue anche alla dichiarazione di estinzione del reato.
Si deve osservare inoltre come l’imputato non sia necessariamente la sola parte privata del procedimento penale. E se si sanzionasse con l’estinzione del reato la durata irragionevole del processo, per la parte civile si aggiungerebbe al danno del ritardo la beffa della denegata giustizia, quando la prescrizione si compisse prima della pronuncia di una condanna di primo grado, come in realtà prevede anche per i procedimenti in corso la disposizione transitoria dell’art. 4 comma 3 del DDL.
Sarebbe peraltro assurda la previsione di una sanzione che non colpisse il responsabile del ritardo, chiunque esso sia, ma vanificasse il processo, lasciando al solo imputato di scegliere se consentire il completo accertamento dei fatti, posto che il diritto dell’imputato di rinunciare alla prescrizione è costituzionalmente garantito.
In realtà il doveroso riconoscimento all’imputato della facoltà di rinunciare alla prescrizione esclude ogni possibilità di individuare il termine di prescrizione come termine di ragionevole durata del processo, perché la durata del giudizio non può essere considerata nella totale disponibilità di una parte.
D’altro canto il DDL in discussione non dispone alcun intervento suscettibile di produrre ricadute positive per l’accelerazione dell’andamento dei processi penali, ma incide solo sul termine massimo di prescrizione dei reati.

Riguardo l'autore

vocealta